Come dovrebbe essere un festival?
Cari amici di Altrevelocità,
quando voi, assieme alle altre realtà che hanno dato vita a «Potere senza potere», mi avete chiesto di dare un contributo alla riflessione sul senso della forma festival, proprio oggi che sembra entrare in crisi, ho accolto la proposta con curiosità. È anche grazie a questa iniziativa che l'anomalia che caratterizza l'edizione 2008 di Santarcengelo sta cambiando di segno, trasformando un'edizione "monca" in una dimensione di possibilità.
Trovandomi a leggere le molte domande poste attorno all'idea di festival, tuttavia, sono rimasto interdetto. I quesiti che avete raccolto hanno un pregio notevole: sono brevi, secchi, vanno subito al sodo di alcune delle tante cose che non vanno o che potrebbero essere migliorate. Scorrendoli uno ad uno si viene colti dalla voglia di risponde in modo altrettanto netto, affermando perentoriamente "questo non va", oppure "ecco come un festival dovrebbe essere".
Faccio qualche esempio. Tutti ci auguriamo che i festival, e più in generale le piazze che danno spazio al teatro che crediamo abbia senso oggi, godano di una stabilità economica che permetta loro di portare avanti dei progetti in grado di crescere e attecchire nei territori e nella coscienza della gente. Qualcuno, avendo a cuore le questioni di principio, dirà che le risorse pubbliche devono essere destinate alla ricerca, che è fuori dalle logiche di mercato, piuttosto che ai grandi eventi, che servono solo a sponsorizzare i politici che li promuovono. Qualcun altro, stanco di sbattere la testa contro il muro della burocrazia e delle illogicità (tutte italiane) delle istituzioni, affermerà piuttosto che occorre guardare al settore privato, trasformando l'arte in un richiamo per turisti, o rivolgendosi come avviene all'estero alle fondazioni bancarie.
O ancora, tutti ci auguriamo che le giovani generazioni trovino delle sponde per potersi inserire in un circuito del teatro tradizionalmente sclerotizzato e in parte afflitto dalla gerontocrazia che, va detto, non è certo un patrimonio esclusivo del mondo artistico. Ma qualcuno potrà far notare che non è l'età anagrafica a certificare il grado di innovazione (e di immaginazione) che un artista o un operatore è in grado di iniettare in quello che fa. E qualcun altro ci terrà a precisare che se si prosegue a utilizzare la categoria "giovani" si cade nel tranello in cui sono cadute le istituzioni, che pensano di risolvere i ritardi e le difficoltà che nutre il nostro paese nei confronti delle arti contemporanee creando dei "ghetti" per l'espressività giovanile – premi, festival, canali d'accesso ai finanziamenti – che sono ovviamente tutt'altro che stabili nel tempo e che si ritrovano a fare da valvola di sfogo di un sistema che non dà affatto segno di volersi aprire. E difatti, il sogno di mettere in connessione i festival, che dovrebbero essere le vetrine dove si mostra ciò che sta avvenendo, e i teatri stabili d'innovazione e non, che dovrebbero intercettare le eccellenze che da lì emergono per rinnovare le proprie stagioni, non si è mai verificato.
A ben guardare, con queste brevi considerazioni ho già toccato alcuni delle questioni sollevate nelle vostre domande. Ma resto interdetto, perché non mi sembra affatto di aver spostato le cose di un solo millimetro. Certo, non ho fatto un'analisi dettagliata, né tanto meno ho proposto ricette nuove in grado di cambiare le cose; tuttavia sia l'una che le altre, sbirciando tra le righe, possono fare facilmente capolino. In qualche modo, anche se accennandolo appena, anch'io con quelle brevi considerazioni dico la mia su come le cose "dovrebbero essere".
Ecco, è questo "dovrebbero essere" che mi lascia perplesso. Perché le soluzioni sono tante, non per forza conciliabili, a volte perfino contraddittorie, e in molti casi, per quanto stimolanti e affascinanti, non è detto che reggerebbero ad una loro traduzione sul piano della pratica.
Non sono convinto del fatto che trovare soluzioni nuove a vecchi problemi serva davvero a qualcosa. Non sono convinto del fatto che un'eventuale "presa del potere" nelle istituzioni artistiche (da parte di chi? delle giovani generazioni? di chi sa qual è il teatro che vale? e secondo quale metro di giudizio?) possa cambiare di molto la situazione: le istituzioni hanno loro logiche e i loro committenti con cui è impossibile non fare i conti. Per altro non sono neppure convinto del fatto che riformare un sistema così complesso sia davvero possibile.
Non dico che tentare l'una o l'altra strada non possa portare da qualche parte, e magari produrre cambiamenti salutari; tutt'altro – e la storia degli ultimi anni ci ha fornito esempi al riguardo. Penso però che in tutti questi casi ci si vada prima o poi a scontrare con lo strano rapporto che abbiamo in Italia con le regole.
L'impermeabilità, salvo eccezioni, dei circuiti teatrali ufficiali, compresi quelli che dovrebbero sostenere la ricerca e l'innovazione, è un esempio di formule nate per ottenere qualcosa che si sono trasformate in qualcos'altro. Ma anche molti percorsi interessanti, negli ultimi anni, sono nati forzando le regole che impedivano loro di esistere. Basta pensare al teatro nato negli spazi sociali. O ancora ad altre situazioni che si sono dovute snaturare per ottenere i loro obiettivi. Ad esempio i festival, che per sostenere il teatro in cui credono si sono trasformati da vetrine di sperimentazione in vere e proprie piazze alternative. Dai festival molte realtà ottengono quello che dovrebbero ottenere dai teatri: visibilità, produzione, attenzione della critica. Ma lo ottengono in scala ridotta.
Ora, in questa attitudine – anch'essa molto italiana – di forzare le cose per far quadrare i conti, si può vedere un ché di eroico. Alle volte è davvero così. A volte l'immaginazione che c'è dietro è tale che si disegnano scenari inaspettati. Altre volte, invece, ha a che vedere con l'esercizio del potere.
Ecco perché mi è difficile risponde alle vostre domande così nette da richiedere un altrettanto lucida e netta risposta. Perché per quanto mi sforzi, non potrei far altro che dire il mio "dovrebbe essere" che al contatto con la realtà diverrebbe necessariamente qualcos'altro. Magari, col tempo, perfino un esercizio di potere.
Dicendo questo non voglio affermare che non c'è nulla che si possa fare. Credo anzi che esistano molte possibilità e molta gente che sta dando vita a spazi, festival, produzioni di alto livello. E credo che è proprio da lì che occorra ripartire. Guardare dove le cose funzionano, e sostenere quell'intreccio di volontà e immaginazione che ha dato loro vita.
Può sembrare un'ovvietà, ma non è così. Ancora oggi, nei discorsi che si fanno sul teatro, si divide nettamente tra un circuito ufficiale che "dovrebbe essere" qualcos'altro e le tante forme di sperimentazione che animano ostinatamente il panorama italiano. C'è una centralità e c'è un margine. Ecco, io credo che artisticamente questa dicotomia non regga più: da tempo il margine ha smesso di essere tale, e se non si è sostituito alla centralità è perché ha preferito immaginare strade diverse. Percorsi dove sfuma il confine tra le arti, dove la parola territorio non è qualcosa di astratto da inseguire costantemente, dove l'idea di pubblico è molto distante da quella di consumatore di eventi culturali.
Con questa considerazione non voglio nascondermi dietro a un dito, so bene che la cosiddetta centralità resta il luogo dove si indirizzano le economie. Sulle economie si potrebbe aprire un ulteriore filone di ragionamento troppo complesso e lungo per poterlo affrontare qui.
Ma penso davvero che battere strade nuove, piuttosto che cercare di impadronirsi di meccanismi ormai sgangherati, sia l'unica azione che possa dare dei frutti. Fare in modo che questi percorsi diventino necessari, al pari delle istituzioni culturali per le quali si piangono copiose lacrime quando vengono minacciate dai tagli. Immaginare strade differenti, "cercare chi in mezzo all'inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio" – come diceva il Marco Polo di Calvino. Non è l'immaginazione, in fondo, la qualità più profonda di chi pratica l'arte del teatro?