Non credo che ci sia un modo univoco per un festival di agire su un territorio e di misurare i risultati. Penso comunque che valga la pena di smetterla di usare il territorio come location e di sbandierare la storia dell’indotto come ragione economica principale per la creazione o il mantenimento in vita di un festival. È una polpetta avvelenata, l’indotto consistente lo fanno quei ‘grandi eventi’ che bruciano i festival e le rassegne che cercano fili più sottili.
Bisogna invece pretendere che gli enti territoriali committenti considerino il festival nei loro (eventuali) piani di sviluppo a lungo termine del territorio, ossia farli entrare nell’ordine di idee che uno spazio di libertà intellettuale è la condizione necessaria per la formazione permanente, per i processi di innovazione, per la distruzione creatrice di Schumpeter, per la creazione di un’economia della conoscenza che genera danaro, non soltanto lo catalizza. Tutte fesserie che sei costretto a dire quando ti trovi davanti un burocrate che ti chiede seriamente ‘a che serve un festival?’ senza che la necessità del teatro gli sia lampante. Qui conta avere la risposta pronta, e la prontezza a creare fatti.
Esiste il problema di rendere commensurabile il servizio che un festival deve rendere a un territorio.
Secondo la nostra esperienza, si parva licet, un festival ha due fronti: uno esterno che riguarda il suo posizionamento tra gli altri festival teatrali italiani, e che qui tralascio rinviando al nostro sito web; e un fronte interno che, secondo noi, ha a che vedere con un progetto culturale articolato concepito sulle misure della comunità e del territorio che, nel nostro caso, si da la missione di:
Costituire un pubblico eterogeneo
Rifunzionalizzare alcuni luoghi della città.
La nostra esperienza avviene in una città in cui ancora esiste lo iato medievale tra città e campagna e lo stare dentro alle mura è denso di significati.
Quello che abbiamo fatto a Siena è stato usare il nostro fine (il teatro) come mezzo per la rifunzionalizzazione e la restituzione alla cittadinanza delle fonti della città. Le fonti sono aree verdi incastonate nella città medievale che raccolgono le acque piovane raccolte da una rete di canali sotterranei. Questi luoghi di bellezza straordinaria hanno avuto un declino costante fino agli anni novanta quando sono stati restaurati e poi chiusi per restare inutilizzati.
Gli abitanti di Siena non conoscevano questi luoghi, non avevano motivo di andarci. Il festival ha creato un pubblico – in cinque edizioni una media superiore alle 200 persone al giorno - intorno a un cartellone che si realizza in luoghi di fatto ignoti, ha creato un bene esperienziale tout-court, ha modificato la fruizione dei luoghi della città, ha focalizzato la domanda di teatro del pubblico della città, ha colmato un vuoto evidente nell’offerta culturale locale che è fortemente sbilanciata su musei e concerti. Può dirsi oggettivamente utile anche di fronte ai suoi detrattori politici – perché territorio è più che mai politica.
Questo può sembrare molto, o molto poco, o anche niente. Per noi resta il fatto che gli esiti positivi di Voci di Fonte dipendono da un progetto sul territorio che, per la sua specificità, non ha ragione di esistere soltanto venti chilometri più in là, ma che permette di dare una solidità al festival come ulteriore piazza per il teatro di ricerca.
* attore e direttore artistico del festival Voci di Fonte, Siena