Che cosa vuol dire direzione artistica?
Santarcangelo 2mila8
Scusate.
Rispondo con piacere ad un invito pensando all’occasione dell’incontro.
Eppure arrivo a questo appuntamento con qualche cosa che somiglia allo stupore degli anziani.
A farci caso, a un certo punto, i vecchi assumono negli occhi una luce che è a metà tra quella di chi ha capito tutto e quella di chi capisce che non ha capito niente mai.
Sono due aspetti che producono la stessa sensazione e non è dato a nessuno di sapere quale sguardo stia scegliendo il vecchio per guardare il mondo.
Arrivo con questa sensazione, senza scegliere, per limite d’età raggiunta, il mio possibile stupore, ma sicuro di sapere che ho capito delle cose e quindi molte altre ancora no.
Scusate.
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“DirezioneArtistica” è una parola sola formata da molte escluse.
Così semplice, che ad alcuni sembra difettata per chiarezza.
Come fosse sempre meglio complicare, fare finta di capire altro e proporre inutili questioni all’attenzione, i malintesi di cui siamo bravi tutti trovano in questo accostamento quanto il dubbio stesso non potrebbe.
Si dice “direzione” cedendo all’accezione di “dirigere”, ma la parola non è mai completa in questa forma. Manca la sostanza che la guida, la trasforma, la destina.
“DirezioneArtistica” è una parola sola formata da molte escluse.
Un’idea semplice che per speranza dovrebbe voler dire solo “andare verso”, o significare cose lì nei pressi di “destinazione o percorso, traccia, strada”.
Dovrebbe indicare soltanto una condizione, un’indicazione, un punto di vista, non essere la maschera di altre figure che altri nomi dovrebbero avere.
Nel nome dell’artisticità non si può proteggere nessun’altra operazione. Non mistificare, manomettere, nascondere.
Non confondere, mimetizzare, sdoganare promiscuità.
Non scambiare l’autolegittimazione di alcuni barattandola con un ruolo senza competenza.
DirezioneArtistica non è organizzazione, referenza politica, capacità manageriali, o meriti o bravure similari.
Sono altre le figure necessarie a questi compromessi.
Perché ci si ostina a far casino con i nomi?
È un’attitudine che diventa vizio.
Perché negare le definizioni?
Se non fosse in buona fede sarebbe strategia.
Il direttore artistico deve essere qualcuno con competenze artistiche.
Legate al fare artisticamente. Al produrre pensiero. Condividere.
Qualcuno quotidianamente rivolto verso gli altri, in movimento, non barricato dietro l’immobilismo di una definizione.
Non il presidente, non l’amministratore, non il critico, il manager, l’organizzatore, l’opinionista.
Il direttore artistico non è colui che dirige ma colui che garantisce l’artisticità delle scelte.
È un garante, solamente, un custode, l’ospite.
Perché non si lascia agli artisti la responsabilità della direzione artistica?
Perché ognuno non fa il proprio lavoro?
A chi e con quale merito viene in mente di proporsi per un ruolo fuori ruolo?
A chi e perché viene in mente d’accettare?
Come si fa a rivolgersi all’operatività degli altri senza rivolgersi alla propria?
In nome di quale verità?
Quale saccenza? Quale supponenza?
Il Direttore Artistico non può essere la testa di un inciucio, il terminale di altre operazioni, lo scudo dietro il quale si lavora in altri campi.
DirezioneArtistica è una parola sola composta da molti esclusi.
Già di suo dovrebbe estromettere da questa corsa gran parte di quelli che s’affannano.
Non si può diventare “direttori artistici”. È un ruolo che non può investire la persona del direttore.
Mi dispiace per molti biglietti da visita in circolazione, ma secondo me si può soltanto dire che la “direzione artistica è affidata a…”.
E non può essere che condivisa.
DirezioneArtistica è una parola sola che non può essere lasciata sola.
Come si fa a garantire un percorso artistico se non rivolgendosi ai percorsi degli altri?
Di altri artisti.
DirezioneArtistica è la responsabilità di relazionarsi agli altri artisti, la capacità di coinvolgere altri artisti.
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Al Teatro San Martino di Bologna, dove sono responsabile per la direzione artistica (e non direttore artistico) ho operato solamente in questo senso.
Ho chiesto ai miei invitati di condividere un progetto, di costruirlo insieme, al di fuori delle mie personali idee e oltre l’artisticità di ognuno.
Concorrere.
Collettivamente.
I miei inviti sono stati rivolti agli artisti non ai loro prodotti.
Sono i miei colleghi che hanno deciso cosa portare in stagione, come rappresentarsi al meglio, come esprimersi all’interno di un percorso che non detengo io, ma che è stato a disposizione di tutti quelli che hanno partecipato. Scritto da tutti quelli che hanno scelto di portare se stessi e il proprio percorso al Teatro San Martino di Bologna. Ma io non sono stato il selezionatore.
Non ho potuto e non posso avere io la pretesa di conoscere quanto stanno facendo gli altri e giudicarlo e sceglierlo o bocciarlo. Rispetto a quale idea?
La mia, del teatro, è al plurale.
Per il mio punto di vista, teatro vuol dire sempre teatri, e quindi gli altri.
È il lavoro di tutti che produce questa direzione. Il responsabile della direzione artistica invita solamente. Gli artisti producono pensiero e non strategia.
È poi il pubblico che dà la misura del percorso, di questo andare verso, della “direzione”.
Il pubblico che diventa platea. L’altra parte fondamentale del teatro.
Il teatro succede in teatro. Tra platea e palco. Tra palco e platea. In quello spazio di mezzo. Non nei corridoi o tra le chiacchiere lì intorno. Non per merito degli spettatori professionisti, gli “spettattori”.
Non per quelli che fanno il teatro dalla platea usando il teatro degli altri. Non quelli che fanno di lavoro gli addetti del settore.
Usare l’artisticità di alcuni per le manovre non artistiche di altri è invece sciacallaggio.
Gli artisti non manovrano, muovono. Non possono essere manovrati, ma invitati solamente. Liberamente.
Metteteli in condizione. Senza condizioni o condizionamenti.
Ne ricaveremmo tutti di più.
Il difetto culturale, diffuso, di questo paese è che quelli che hanno un metro quadro di terra sotto i piedi, sufficiente soltanto a farli stare in piedi, non s’arrischiano mai a fare un passo in più. Meglio creare ponticelli nell’arcipelago dei provvisori piuttosto che rinunciare per coraggio alle reciproche legittimazioni.
Ecco una parola tutti i giorni fastidiosa: coraggio.
Se ne avessimo tutti di più non staremmo a scrivere, leggere, ascoltare parole così povere dentro discorsi così piccoli.
Se ci attenessimo alla sincerità delle relazioni, dell’incontro che chiamiamo teatro non rischieremmo l’assalto dei paraculi ripuliti che l’italia chiama ormai furbetti con quel pizzico d’orgoglio così caro alla nazione.
Per i paraculi si aprano i parateatri.
Per gli altri, una parola sola: coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio, coraggio,
coraggio! Scusate.
* attore e fondatore della compagnia Fortebraccio Teatro. Responsabile della direzione artistica del teatro San Martino di Bologna