Mi chiamo Cristina Ventrucci e lavoro nel teatro come organizzatore e critico. Anche a me è stato chiesto come a molti altri di intervenire in questa ricerca dell’essenza di un festival. Trattandosi di una richiesta venuta da amici, critici e artisti che stimo – e ai quali auguro ogni bene per questa edizione che grazie a loro sta ritrovando vita – e trattandosi anche di un destino, quello del festival di Santarcangelo, che mi è particolarmente caro per la sua origine di matassa estetica, politica e pedagogica, ho preparato nel mio piccolo questo percorso di cucito tra le parole di due polacchi, un poeta e un reporter ai quali ho rilanciato la domanda. Comincia con una poesia di Wislawa Szymborska e termina con un frammento da Riszard Kapuscinski. E mi scuso per la maldestra pronuncia dei loro nomi e per la qualità della mia lettura.
"Intervista a un bambino"È poco che il Maestro è tra noi. / Perciò fa la posta da tutti gli angoli. / Si copre il volto e guarda tra le dita. / Ha la faccia rivolta al muro, poi si gira di scatto. // Il Maestro respinge con disgusto l’assurdo pensiero / che un tavolo perso di vista debba restare un tavolo, / che una sedia alle sue spalle stia nei confini d’una sedia, / e nemmeno cerca d’approfittare dell’occasione. // Vero, è difficile sorprenderlo diverso, questo mondo. / Il melo torna sotto la finestra prima d’un batter d’occhio. // I passeri iridati scuriscono sempre in tempo. / Le orecchie del secchio catturano ogni fruscio. / L’armadio notturno finge la passività di quello diurno. / Il cassetto cerca di convincere il Maestro / che lì c’è solo ciò che v’era stato messo prima. / Perfino nel libro di fiabe aperto all’improvviso / la principessa torna sempre per tempo sull’illustrazione. // Sentono in me un forestiero – sospira il Maestro – / non vogliono che un estraneo giochi con loro. // Come è possibile che tutto ciò che esiste / debba esistere in un solo modo, / in una situazione orribile, senza uscita da sé, / senza pausa e mutamento? In un umile da qui – a lì? // Mosca acchiappata in una mosca? Topo / intrappolato in un topo? Un cane mai liberato / da una catena celata? Un fuoco che altro non può fare / se non scottare di nuovo il dito fiducioso del Maestro? / È questo quel mondo vero, definitivo: / ricchezza sparsa che non si può raccogliere, / sfarzo inutile, possibilità vietata? // No – grida il Maestro e batte tutti i piedi / di cui dispone – con una tale disperazione / che non basterebbero le sei zampe d’un coleottero.”
(Wislawa Szymborska, Discorso all’ufficio oggetti smarriti, Adelphi, Milano 2005)
Non disponendo di specifiche risposte alle grandi domande elencate, mi sono soffermata sulla questione che mi sembrava contenerne in sé molte altre ed essere lei stessa una sorta di risposta, questione che ho sentito subito vicina nelle immagini che evoca. Che spazio dare ai tra virgolette “bambini” durante un festival?
Tutto lo spazio del festival sia dato ai bambini, a quelli tra virgolette, a quelli con le ginocchia sbucciate – se ancora ce ne sono, grandi o piccoli che siano – e a quelli col game-boy in mano, prima che vi si annichiliscano. Sia dato il festival ai bambini che attraversano la savana in groppa al loro asino, alla fame di invenzione dell’impossibile, all’unica consapevolezza di “essere tutti ugualmente piccoli”, al
“Genius” creatore che ci porta a vedere nell’altro l’“emozione suprema”, la “prima politica”. (Giorgio Agamben, Genius, Nottetempo, Roma 2004)
Tutto lo spazio sia dato al fuoco educativo dell’arte, al suo attrarre visitatori ignari e altri consapevoli, accogliendo i primi per mano spaesando i secondi come stranieri, al suo farsi apriscatole dei mondi, quelli psichici da percuotere, quelli invisibili da stanare e quelli nostrani, vere e proprie salsicce di violenza da masticare e risputare.
Sia il festival un “mondo salvato dai ragazzini” con Elsa Morante alla guida, un tripudio di domande inopportune, di lotte e lieti fini, di esperimenti alchemici e azzardate centrifughe, sia l’orologio di “un presente immemorabile”: un festival che cerchi il suo grado di pre-istruzione, rivendichi la sua laurea di autodidatta, illumini il sapiente d’ingenuità, che sia riconcepito e pieno di sorprese come un libro di Bruno Munari.
E sia un’immagine davvero molto molto molto lontana dalla scena che ieri sera si vedeva in distanza dallo Sferisterio: mentre la tanto agognata piazza Ganganelli si rianimava attraverso una sorta di collettivo yoga risanatore, una richiesta di presenza e di respiro comune, al parco là di sotto regnava un patetico fitness dell’idiozia, con un folto gruppo di adulti che ascoltava divertito altri adulti scatenarsi in un pianobar di vecchie canzoni per bambini decervellati: “vola vola vola l’Ape Maya”. Finti bambini fintamente allegri tra le luci colorate, mentre pochi ragazzini ribelli poco più in là si rincorrevano nel prato buio.
Sia il festival l’immagine di un comizio di adulti liberati a una repubblica di bambini nel continente nero.
“ ‘Nkrumah è il nostro salvatore!’ mi dice con voce vibrante d’ammirazione il giovane insegnante Joe Yambo. ‘Hai sentito come parla? Sembra un profeta!’
Sì, l’avevo sentito. Era venuto per un comizio nello stadio locale, seguito da un codazzo di ministri giovani e vivaci che comunicavano un’impressione di gente allegra, ben disposta. La manifestazione era cominciata con i sacerdoti che, bottiglia di gin alla mano, aspergevano il podio: un’offerta agli spiriti, un modo di entrare in contatto con loro, di procurarsene il favore. A questi comizi partecipavano ovviamente gli adulti, ma c’è anche un’infinità di bambini: dai lattanti portati dalle madri sulla schiena, a quelli che appena appena gattonano, fino ai più grandicelli e agli scolaretti. Dei piccini si occupano i più grandi, dei più grandi i più grandi ancora. Questa gerarchia dell’età viene rigidamente rispettata e l’ubbidienza è assoluta. Un bimbo di quattro anni ha pieni poteri su uno di due, e uno di sei su uno di quattro. I bambini si occupano dei bambini, i più grandicelli sono responsabili dei più giovani e gli adulti possono dedicarsi agli affari loro, come per esempio ascoltare attentamente Nkrumah.
Osagyefo fu breve. Disse che l’essenziale era stato ottenere l’indipendenza: il resto sarebbe venuto da solo. Dall’indipendenza sarebbero scaturiti automaticamente tutti gli altri beni.” (Ryszard Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli, Milano 2007)