NEL VILLAGGIO DI K.
Questa grande tentazione di esistere! Ad ogni costo. E’ se la morte è già avvenuta? SE la chiamata è un'altra volta legata al fatto di non riconoscere il fatto come tale?
Se ciò che si guarda e si continua a guardare con passione è un corpo morto della collettività.
Se ciò che si desidera e’ il contrario di ciò che si ottiene, mi chiedo e vi chiedo a questo punto vale la pena di agire?
Quale è il senso di un azione se non la sua efficacia?
Non basta il suo aspetto simbolico. O basta?
Cosa si vuole ottenere a questo punto?
La narrazione?
Perche continuiamo a obbedire al vuoto volendolo a tutti costi riempire?
Una cosa è considerare il vuoto come condizione, una cosa è obbedirli.
La mia domanda resta ed essa si articola nel modo seguente:
E’ possibile elaborare un’azione che si nutre della cosciente e decisiva sospensione dell’azione nei casi in cui “agire” non è altro che un gesto reazionario. Riempire un vuoto che c’è.
(un esempio nella recente politica nazionale è il multiculturalismo di sinistra, che era un vuoto che riempiva un vuoto e che ha avuto come conseguenza concreta le leggi quasi speciali di destra contro l’emigrazione clandestina appoggiati dalla maggioranza degli italiani)
quando MI riferisco alla sospensione di azione non mi riferisco ad una passività…ma ad una preparazione. Ad un ritirarsi dal villaggio.
E’ chiaro che il vuoto c’è e non è il suo riempimento che lo colmerà…perche il vuoto di potere è una trappola kafkiana, che alla lunga porta allo sfinimento.
Non mi stupirò se in fine ci si ritroverà nella situazione di
tanti K. sfiniti, nel cercare il dialogo con i Signori.
Accanto al corpo morente di K. ci sono tanti spettatori. Non ditemi che questo è rassicurante! E poi in fine arriva la lettera dei signori in cui si dice che
Anche se K. non ha il diritto di vivere nel villaggio, sulla base di certe “strane circostanze” con generosità gli si dà lo spazio, dove potrebbe vivere e svolgere il proprio lavoro.
SNEJANKA
MIHAYLOVA
15-07-2008