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INTERVISTE > La tracce luminose di pathosformel

Come avete affrontato il lavoro video per Volta e La timidezza delle ossa? Ci sono stati approcci diversi?

Paola Villani: I video sono stati affrontati in maniera specifica per ciascuno spettacolo. La motivazione che ci ha spinti a realizzarli è un fatto molto realistico: per presentare il proprio lavoro è necessario creare un video che lo rappresenti, e in seconda battuta volevamo fare in modo che il materiale dello spettacolo potesse essere materiale anche per qualcun altro.

Per La timidezza della ossa abbiamo dato lo spettacolo in mano ai ragazzi di Pin up, un gruppo di videomaker di Roma. Abbiamo unito gli intenti di entrambi, poiché loro hanno realizzato il video utilizzando lo spettacolo come materiale puro da rielaborare, permettendoci di avere una documentazione della Timidezza. Hanno scelto di rimanere aderenti allo spettacolo, tant’è vero che il video ha esattamente la stessa durata dello lo spettacolo.

Per le riprese abbiamo fatto due-tre giormi di sedute di prove apposite durante la residenza al Teatro Comandini di Cesena. Era impossibile fare delle riprese durante le repliche per motivi di luce e per il tipo di riprese che i ragazzi avevano intenzione di fare, non mantenendo un punto di vista unico.

I ragazzi di Pin up non hanno comunque voluto utilizzare in maniera diversa il materiale che avevano a disposizione, e hanno restituito quella struttura bidimensionale e frontale che fa parte della Timidezza, e in qualche modo la accomuna alla ricezione di un’opera video.

Il video di Volta è nato in maniera un po’ diversa. Anche in questo caso la prima urgenza è stata quella di dover documentare il lavoro ma non ci eravamo ancora riusciti, perché la visibilità dello spettacolo non lo permette. Sapevamo di dover lavorare comunque in maniera molto diversa dallo spettacolo, ma correvamo il rischio di apportare dei cambiamenti che ci portassero a un risultato troppo artificiale, riportando un’immagine forse fin troppo nitida di quello che avviene realmente in scena.

Ci interessava di più ragionare sulle caratteristiche che hanno invece portato alla nascita del lavoro, quelle costitutive di Volta: il lavoro sul materiale, sulla sua fragilità, la labilità dei confini del visibile, le presenze molto forti del buio e dei bagliori della cera, il nero della sala e la luce di cui sono composti i corpi. Avevamo cominciato a pensare di lavorare a un’animazione, utilizzando perciò un materiale diverso, in grado di riprendere la sequenza drammaturgica di Volta e che potesse essere veramente un lavoro più documentario della ripresa effettiva dello spettacolo. Contemporaneamente è arrivato il TTV che ci ha permesso di dare una scadenza a questo lavoro, che era già nei nostri progetti.

Abbiamo cominciato a lavorare con diversi strumenti, tempere e colori, per capire che cosa fosse più pertinente allo spettacolo. Quello più aderente, secondo noi, era un lavoro sulla pennellata, sulla traccia che il colore lascia, dove non ci fosse una perfetta corrispondenza con le immagini evocate.

Lo scarto tra frame e frame crea dei corpi che sono fatti di materia organica, perché costantemente in ricostituzione. È una materia mai fissa, senza un fermo immagine. È un’animazione che mantiene sempre uno scarto tra un frame e l’altro, e per costituzione non è in grado di stare ferma.

Una cosa di cui avevamo un po’ paura era di cadere in un sistema che avrebbe riproposto solamente un’immagine grafica, un gioco che riproponesse i due elementi di buio e luce. E invece lavorare sulle immagini dello spettacolo ci ha permesso di svincolarci da questo rischio. Le immagini sono prese esclusivamente dallo spettacolo, rimontate perché il video durasse meno ricompattando una sequenza che avesse senso per me che la ridisegnavo.

Mi racconti tecnicamente come hai proceduto alla realizzazione di questa animazione?

P. Abbiamo prima ripreso lo spettacolo alla luce attraverso una telecamera. Poi l’ho rimontato per creare una sequenza che mi interessasse, prendendo però alcuni punti fondamentali del lavoro che potessero poi corrispondere a un’immagine video, perché in ogni caso non tutto funziona e non tutti i tempi sono corretti per una ripresa video.

Hai compiuto il processo inverso dei coreografi che utilizzano sistemi di cattura del movimento per acquisire una consapevolezza dettagliata del proprio corpo e dei movimenti minimi che compiono durante le improvvisazioni…

P. È una dimensione molto particolare, perché io conosco l’immagine che si crea ma in realtà non conosco lo spettacolo. Avendovi lavorato dentro, in realtà non ho mai avuto una percezione così netta rispetto a quando mi sono trovata a disegnare il mio movimento frame per frame. È stato un vero e proprio processo di scoperta.

Secondo me la cosa più interessante del video era il formarsi e lo sciogliersi del corpo in continuazione. Nello spettacolo questa cosa avviene ma molto lentamente. A video doveva essere un po’ più compatto. Quindi abbiamo realizzato questa sequenza di sei minuti, poi abbiamo scomposto i frame, e sui frame abbiamo lavorato con i colori: ho stampato i frame e poi ho colorato con gli acrilici sopra le sezioni. Tutto è stato poi rimontato, compreso l’audio.

Questo procedimento fa sì che all’interno di ogni immagine si ritrovi costantemente una traccia di corpo, una traccia di movimento realmente umano o animale in ciò che succede. All’inizio avevamo anche pensato di far riemergere, in alcuni tratti, il corpo per come l’avremmo visto alla luce, proponendo una sorta di apparizione per ovviare al problema dell’organicità perduta. In realtà lavorando direttamente sulla scansione di movimento il problema si è ridimensionato, e non c’è stato bisogno di questo accorgimento.

Tutto questo processo è stato fatto perché l’animazione fosse più vicina possibile allo spettacolo. Anche se ci ha portato a creare un’altra immagine. Perché anche se il tipo di immagine è diversa da quella dello spettacolo, io credo che lavori sugli stessi meccanismi che sono alla base di Volta.

Tornando invece su La timidezza delle ossa, quali sono state le differenze sostanziali tra lo spettacolo e la sua risultante in video?

P. Quello che viene affrontato in maniera completamente diversa, secondo me, è la percezione del corpo che emerge dal telo. Nel video si perde il fatto che nella Timidezza il corpo, al momento dello sguardo, assume delle proporzioni che sembrano sovrumane in alcuni punti e infinitamente piccole in altri.

Secondo me è interessante, da questo punto di vista, che Pin up abbia scelto di lavorare con i primi piani, per afferrare alcuni particolari sul telo. Proprio perché questo dato è andato perso, forse la cosa più interessante su quel materiale era lavorare sull’immagine che veniva fuori, o addirittura sulla scoperta di quegli elementi che la distanza dal telo talvolta rendeva inaccessibili allo spettatore, basandosi magari più sul frammento di corpo che emerge piuttosto che sulla dimensione del totale.

 

Daniel Blanca Gubbay: La realizzazione video de La timidezza delle ossa crea necessariamente uno scarto. La visione del lavoro della Timidezza dal vivo gioca con la bidimensionalità ma anche con la fuoriuscita da questa componente, creando una sorta di bassorilievo. Nel video questa è la prima cosa che rischia di perdersi, perché appiattendo l’immagine viene a crearsi una specie di disegno puramente bidimensionale, e si perde tutto il gioco di lettura delle ombre che invece per noi era così fondamentale all’interno dello spettacolo. Si compromette tutta la funzione aptica stabilita dall’immagine che l’occhio cerca necessariamente di catturare.
Inizialmente l’immagine video sembrava molto fedele alla performance, ma andava in realtà a costruire questo scarto. Per questo motivo l’intervento sul dettaglio è molto interessante nel momento in cui si sceglie un punto di vista che non sia quello frontale, e permette di far emergere quei particolari della performance che altrimenti non sono visibili. Invece arrivando in prossimità del telo con la machina da presa è possibile far emergere maggiormente il gioco del rilievo.

Che cosa sono diventati per voi questi video? Hanno acquisito una loro autonomia totale?

P. Quello che è sicuro è che il legame con lo spettacolo è imprescindibile.

 

D. Quello che potrebbe essere obiettato, soprattutto in riferimento al video di Volta è che non è un documentario realistico del lavoro, anche se al tempo stesso gli è fortemente aderente. Questo non soltanto perché si recupera la sequenza di movimenti che avviene in scena, ma per il tipo di attenzione che noi poniamo al materiale nello spettacolo. Il processo artigianale è traslato in questa animazione grafica. All’inizio c’era stata anche l’idea di realizzarlo con la cera, tentando anche con questo strumento di non appiattire l’immagine. Proprio perché è costruita frame per frame e ridisegnata a mano con gli acrilici, dal nostro punto di vista questa animazione è più fedele all’idea dello spettacolo rispetto a un documentario. È evidente che ha un suo valore artistico autonomo, anche indipendentemente dallo spettacolo. Ma il senso di quel video per me rimane la documentazione del mio lavoro in scena.

 

P. Nella nostra idea c’è la volontà di mandarlo in giro proprio come video del lavoro. Resta da vedere come verrà recepita questa differenza.

Cerchiamo di ricapitolare quali sono i meccanismi costitutivi di Volta e della Timidezza dal punto di vista della realizzazione scenica. Mi sembra necessario per chiarire la relazione tra i due spettacoli e proseguire un discorso sul versante dei video.

D. In entrambi i lavori l’idea di base è quella di problematizzare la visibilità del corpo in scena. Tentare di negare la scontatezza con cui il corpo viene messo in scena, e farlo così scoprire allo spettatore. Si trattava sostanzialmente di poter lavorare con un medium, un materiale che traslasse la visione del corpo. Per La timidezza la scelta è stata di velare i corpi e concedere solo a i margini del corpo di mostrarsi in rilievo attraverso il contatto con il telo stesso; in Volta il procedimento è stato inverso, e abbiamo scelto di lavorare con un materiale assolutamente deperibile, fragile, difficile da gestire ma che fosse appunto l’unico materiale che consentisse al corpo di essere visibile. Le performer sono completamente vestite di nero e addosso hanno uno strato di cera che progressivamente, nel corso dello spettacolo, si sgretola, si stacca, si frantuma e fa diminuire la percentuale di visibilità del corpo. Se per La timidezza delle ossa c’era il tentativo estremo di imprimere la propria immagine, un’insistente lotta per mostrarsi, in Volta c’è una sorta di rassegnazione alla scomparsa inevitabile della propria forma. È come se i tentativi fossero speculari. Da una parte sparire e dall’altra emergere.

La risultante è quella di avere un corpo instabile in entrambi i lavori. Un corpo che crea un’immagine difficile afferrare per chi la guarda perché non è mai completa. Però in Volta si aggiunge l’inevitabilità della sparizione, la coscienza del corpo di potersi mostrare ma di essere al tempo stesso costituito di una materia dalla fragilità estrema, consapevole del fatto che ogni minimo movimento mina la sua esistenza in scena. Anche durante la creazione della coreografia abbiamo lavorato con un’idea di nascita del corpo per arti, una nascita che si accompagnasse alla frantumazione, al nascondimento, allo spegnimento del corpo.

Sostanzialmente raccontiamo più o meno la stessa cosa: come un corpo tenta di esporsi in una maniera nuova, e come si dona allo spettatore lasciando solo una traccia di questo suo tentare.

Noi abbiamo cominciato a parlare di ‘dittico’ abbastanza recentemente. Soltanto a lavori ultimati ci siamo rassegnati all’unione che c’era tra i due spettacoli. Non sono nati per essere un dittico. Forse perché nel momento della fase creativa, quando le riflessioni sono ancora fertili, i semi gettati sono cresciuti spontaneamente e autonomamente. Volta e La timidezza delle ossa sono due lavori estremamente plastici, pittorici, scultorei. Costituiscono “due studi per un teatro anatomico”, come li definiamo adesso, perché ti permettono veramente di vedere il corpo in due versioni differenti.

Nei video la relazione tra i due spettacoli è mantenuta in pieno?

D. Io credo che mantengano di meno questa corrispondenza, perché sono stati concepiti con due autonomie separate. Inoltre vanno a indagare gli aspetti specifici di ciascun lavoro. Per quanto i due lavori siano strettamente relazionati, i problemi che presentano sono differenti: c’è un problema di spessore da una parte, un problema di organicità del materiale dall’altra, e comunque sono stati tradotti per una visione diversa.

 

P. È interessante che anche due lavori così affini siano diventati due video tanto diversi. Io penso che ci sia comunque una traccia, però è bello sapere che può esserci anche questa possibilità, e che con la mediazione di un mezzo come quello del video si possa arrivare a risultati così diversi. Una delle cose che avevamo pensato per l’allestimento del TTV era di mandarli in contemporanea nella stessa sala con l’audio in cuffia, in modo che le immagini potessero essere affiancate. Invece abbiamo capito che non sarebbe stato giusto, perché a video non c’è più la relazione che c’è invece dal vivo.

 

D. Ci sono certe cose che nei video ritornano, elementi già molto radicati negli spettacoli. Oltre che da una riflessione comune e da un rapporto di positivo e negativo, Volta e La timidezza delle ossa sono appunto costituiti di momenti che ritornano, come la nascita del corpo. È interessante quindi poter vedere come questo momento ad esempio è reso in entrambi i lavori. Non sono però momenti che affiancano il video, ma piuttosto qualcosa che rimane all’interno della memoria degli spettacoli.

 

P. Una cosa che io trovo molto affascinante di questi lavori è che questi segmenti ‘tematici’ di cui parla Daniel si sviluppino in realtà in maniera molto diversa, perché instaurano una relazione peculiare con i diversi materiali degli spettacoli: nella Timidezza la nascita avviene per punti, per brandelli che spariscono; in Volta è uno stendersi, si apre una linea che ha dei sussulti e una presenza già formata e, molto molto diversa da quella che c’è sul telo.


D. La nascita del corpo è uno degli archetipi sui quali ci è capitato di ritornare nell’arco del lavoro. Un altro nucleo interessante è quello della lotta tra i corpi, che in questi due spettacoli ha avuto un effetto collaterale: l’ambiguità che quella fosse una lotta tra i corpi o dei corpi con il materiale. Per esempio nella Timidezza delle ossa il momento di lotta per noi è fortemente legato a dei bassorilievi di guerra, e al tempo stesso questo aggrovigliamento di corpi ti fa confonde su quali arti appartengano a quale corpo, e contemporaneamente c’è una lotta in corso con il telo. In Volta abbiamo elaborato una specie di lotta durante la quale il corpo frantuma la cera in scaglie, che poi volano via. Sono momenti che tornano in maniera quasi involontaria in entrambi i lavori.

Che cosa intendi per ‘archetipi’?

D. Quanto parlo di ‘archetipi’ faccio riferimento agli studi di Aby Warburg, e più propriamente alle pathosformel, condensati di forma e contenuto che ritornano nei secoli, così come le definisce lo studioso. Sono differenti rispetto agli archetipi perché mentre i primi sono più legati alle civiltà, le pathosformel sono nuclei trasversali, slegati dai luoghi e dai tempi storici. Sono nuclei di passione che ritornano. La lotta nella sua forma di aggrovigliamento tra corpi è considerata da Aby Warburg una delle principali pathosformel. L’aspetto interessante non è l’analisi che l’iconologo fa di ognuna delle immagini che considera, ma il paragone che pone alla base: nell’avere questi stesi nuclei confrontati in maniera contemporanea in modo che saltino agli occhi le affinità ma soprattutto le differenze

Warburg aveva dei pannelli neri sui quali spillava tutte le immagini. Affiancandole saltavano all’occhio gli elementi che le accomunavano e che le distinguevano, non in un’ottica evolutiva ma orizzontale, dove compresenziano alto e basso, senza considerare l’epoca o la civiltà o il luogo nel quale sono emerse. Gli archetipi che noi utilizziamo, l’idea di nascita del corpo oppure la lotta, sono nuclei di lavoro consolidati a posteriori, ma che sicuramente avevamo già incanalato nel nostro progetto per la visione del corpo. I video ti aiutano a mettere di fianco queste immagini piuttosto che riproportele in sequenza alternata, mostrando l’aspetto peculiare delle pathosformel in maniera più marcata.

Il vostro lavoro performativo è strettamente legato allo sguardo attivo dello spettatore, al suo cercare e creare immagini attraverso le tracce di visione che gli offrite. Quali modifiche ha comportato il lavoro sul video da questo punto di vista?

D. Lo scarto è grande, secondo me. Per noi La timidezza e Volta costituiscono per lo spettatore l’arrivo in un mondo altro, trovarsi improvvisamente di fronte uno spiraglio su un altro mondo di immagini rarefatte. In entrambi i lavori ci interessava che per una cosa o per l’altra lo sguardo fosse direzionato in un punto, che cogliesse ma soprattutto cercasse nella profondità dello spazio una traccia di luce, o un puntino o una vertebra nell’area del telo. Il fatto che l’immagine può nascere in qualunque punto dello spazio e tutti i punti sono ugualmente probabili sorgenti di movimento o forma, sono gli aspetti più interessanti dello sguardo dal vivo all’interno delle nostre performance. Lo sguardo in video invece è più pittorico, inquadrato in uno spazio limitato e si perde la spazialità. Il lavoro della ricerca di indizi che dal vivo è fondamentale, nel video si trasforma in qualcos’altro. Non sei immerso nello stesso modo in quello che avviene davanti a te, e non sei coretto con lo sguardo a focalizzarti sul particolare.

Quante rinunce comporta il video rispetto a una concezione del vostro dittico come “teatro anatomico”?

P. Per quanto riguarda il video ci siamo posti la questione in maniera molto differente, poiché l’idea che ci eravamo prefissati era quella di rendere l’aspetto più organico e animale delle immagine prese dagli spettacoli. Quello che emerge dal nostro ‘teatro anatomico’ è l’idea di avere dei corpi che non corrispondono alla fisicità di un corpo umano, ma che comunque riconosci come tali. Perché possiedono delle caratteristiche di sviluppo e di organicità che riconducono lo spettatore a quella fisicità. Così puoi distinguere intuitivamente un braccio, una gamba, una mano ma sempre dubitando, perché non hai mai la certezza di ciò che guardi. Che cosa sia effettivamente ciò che hai di fronte non è così interessante. Quello che è interessante è che quella linea abbia una vita, indipendente e autonoma, che abbia uno sviluppo in altezza, in larghezza, che si muova in una direzione o in un’altra. Il motivo guida del montaggio di Volta è stato: che cosa può riportarmi alla questione dello sviluppo organico anche a video?

A volte le forme create dai punti della Timidezza o dalle linee di Volta diventano veramente degli animali, ma queste figure sono interessanti solamente perché hanno uno sviluppo precedente, e servono a concretizzare una forma che poi immediatamente si deve sciogliere. Perché la vita di quegli arti, di quei singoli pezzi ha addirittura più valore nel momento in cui non è formata, nel momento in cui non è così aggregata e organizzata.

 

D. Secondo me nel video c’è molto di più l’aspetto animale o antropomorfo, il momento di ricostruzione di un’anatomia possibile. L’aspetto della frammentazione del corpo, l’incursione chirurgica nelle ossa, invece si perde. Rimane, ma è sicuramente meno potente, proprio per il suo specifico di sondare il corpo in maniera così parziale. Di fronte alla Timidezza, quando in tutta la grandezza del telo si sporge un braccio che si staglia, il tuo lavoro di spettatore consiste proprio nel ricercare, scavare in tutto questi bianco per tirare fuori il pezzo di corpo che hai intravisto. La parcellizzazione del corpo nel video si perde perché non è fattibile mantenere un campo lungo. Allo stesso tempo in un primo piano hai il dettaglio, puoi cogliere il bassorilievo ma perdi la fatica della ricerca dello sguardo, la sua attività di ricostruzione che secondo me va a costituire l’aspetto più anatomico del lavoro.

 

 


di Serena Terranova
 

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