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Un teatro in mezzo ai campi: 8 aprile con le Ariette


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''La formazione del nuovo pubblico'': un convegno sabato 25 marzo ad Albenga


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La cultura nell'economia italiana: il 13 gennaio un convegno a Bologna


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APPROFONDIMENTI / DANZA > Quale formazione per la danza in Italia?

Quante bambine alla fatidica domanda “cosa vuoi fare da grande?” risponderebbero ancora “la ballerina”, se sapessero che, per coronare il proprio sogno, in Italia, dovrebbero navigare in acque non affatto rosee? Perché se è vero che l’offerta formativa in apparenza è molteplice, a livello professionale le possibilità sono limitate a poche strutture, in alcuni casi a pagamento, spesso vincolate a sterili sbarramenti di ammissione e non sempre aggiornate sulle metodologie di insegnamento. Eppure i dati emersi da un’analisi sullo spessore socio-economico del ballo – fenomeno in forte espansione nel nostro paese e in netto vantaggio rispetto alla danza propriamente detta – riportano che il settore interessa oltre 7.000 locali pubblici, circa 6 milioni di appassionati, oltre 3 miliardi di Euro di fatturato all'anno (8 mila miliardi di vecchie lire), compreso l’indotto, 90.000 competitori amatori FIDS/CONI, 45.000 iscritti nel settore promozionale non Federale (ARCI, AICS, UISP, FIBES, ASI, ecc.), 7.600 maestri diplomati iscritti alle federazioni professionisti riconosciute dalla FIDS/CONI, 1.500 manifestazioni agonistiche federali all'anno e inoltre attraversa tutti gli strati sociali ed economici della società contemporanea. Ma la danza, si diceva, è un’altra storia.

Che si tratti di una passione o di una moda, il sogno di coloro che varcano la soglia di una scuola di danza è di potere un giorno esercitare la professione di danzatore. Ma come fare a proseguire oltre a quel livello amatoriale di cui spesso si può godere in Italia? Esiste la possibilità di rifiutare il trasferimento all’estero, che spesso attrae per i suoi centri di formazione professionale di alta qualità e riconosciuti a livello internazionale?

In Italia, le strutture a cui rivolgersi sono generalmente di due tipi, le scuole private e le Accademie.

Queste ultime, da luoghi storicamente deputati alla formazione in danza classica, annoverano oggi anche corsi di studio con indirizzo moderno e contemporaneo. L’Accademia Nazionale di Danza di Roma, già Regia Scuola, nasce nel 1948 sotto la direzione di Jia Ruskaja e oggi vanta il proprio diploma a livello universitario, con tre indirizzi formativi: danza classica, danza contemporanea, composizione. Se questa realtà è forse la più conosciuta in materia di formazione accademica, la Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma, istituita nel 1928, è una delle più antiche e prestigiose, con quelle della Scala di Milano e del San Carlo di Napoli. La storica Scuola di Ballo della Scala di Milano risale al 1813, ma è solamente dal 1999 che, alla tradizionale specializzazione in danza classico-accademica è stata affiancata quella in danza moderno-contemporanea. Sono otto gli anni di studio, suddivisi in cinque anni di corso istituzionale e tre dedicati alle due specializzazioni. Sui rispettivi siti è possibile ottenere tutte le informazioni dettagliate per i requisiti e le modalità di ammissione, nonché i programmi dei corsi e le biografie dei docenti.

E proprio navigando su internet, nel piano di studi del biennio specialistico dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma si può leggere che, in relazione all’insegnamento delle discipline coreutiche, «il percorso proposto ha l’obiettivo di fornire allo studente competenze artistiche, tecniche e metodologiche tali da consentirgli la piena padronanza dei molteplici aspetti dell’insegnamento, della progettazione, della creazione e della ricerca nei diversi contesti sociali, culturali ed artistici in cui la danza si esprime». Ottimo. Ma la verità è che il mondo della danza in Italia rischia di sprecare energie e talenti perché non li riesce a impiegare. Ossia, come dare speranza ai giovani che ogni anno si diplomano in queste accademie?

Il panorama italiano, per rimanere circoscritti alle compagnie di balletto, è particolarmente arido e, non dimentichiamolo, la danza classica costringe ad andare in pensione a 47 anni le donne e 52 gli uomini, interrompendo una carriera in un’età relativamente giovane e incoraggiando all’insegnamento un folto numero di ex danzatori e, di conseguenza, dando vita a uno sproporzionato insorgere di scuole private. Proprio le scuole private giocano la parte del leone per quanto riguarda l’offerta formativa nel nostro paese. In realtà il quadro è molto complesso e non consente una valutazione sopra le parti né tanto meno un’analisi delle singole strutture. Addirittura è pressoché impossibile recuperare il numero di scuole private in Italia, tanto che nemmeno il Ministero dei Beni Culturali o l’ENPALS (Ente Nazionale di Previdenza e di Assistenza per i Lavoratori dello Spettacolo) hanno questi dati a disposizione. Ciò che emerge comunque è che, mentre un tempo le scuole di danza erano associazioni culturali, oggi la danza viene considerata una disciplina sportiva tanto che molte realtà sono affiliate alla Uisp (Unione Sport per Tutti) Lega Danza.

Guardando all’offerta delle discipline nelle scuole, si evince che la predilezione per l’eterogeneità – corsi di danza classica, sbarra a terra, danza moderna, jazz, contemporanea, tip tap, mimo corporeo, flamenco, danza africana, balli caraibici, acrobatica, tra altri – sicuramente soddisfa gusti e aspettative diverse. Tuttavia, più raramente, appaga una reale ambizione professionale. La maggior parte delle scuole private italiane sono carenti di percorsi formativi che non siano ricondotti a laboratori e stages occasionali e solo in rari casi, nella scuola stessa, è istituita una compagnia di danza, in cui riescono a entrare gli allievi più meritori. Così agli aspiranti danzatori non resta altro che la dipartita verso i lidi esteri.

I percorsi professionali offerti dalle scuole private, tra cui alcuni seguiti da eccelsi docenti, sono sempre a pagamento e non richiedono particolari requisiti per l’ammissione, se non avere la maggiore età e una forte motivazione verso la danza come carriera professionale. Un indice piuttosto negativo, questo, che non sostiene il basilare principio delle pari opportunità ma, al contrario, privilegia alcuni e penalizza chi ha maggiori ristrettezze economiche. Ma il merito non dovrebbe essere un requisito? E laddove fosse richiesto, con quali criteri viene valutato?

Una realtà sicuramente di spicco in questo confuso pullulare è la Scuola Civica Paolo Grassi di Milano che, tra altri corsi, annovera quello di teatro danza, il cui obiettivo è «fornire strumenti pratici e teorici di lavoro sul corpo, studio e approfondimento, per danzatori e performer che vogliano qualificare la loro professionalità quali interpreti nell’ambito del teatro di danza contemporaneo e per aspiranti coreografi o danzatori che mostrino attitudine e interesse alla composizione coreografica, sempre in ambito contemporaneo». Un percorso didattico a frequenza obbligatoria e della durata di tre anni, a cui si accede con una selezione teorica e pratica e che, a livello di quota annuale, si conforma alle tariffe delle Scuole Civiche.

Dunque, ad eccezione di questo ultimo esempio, in Italia si riscontra amaramente che mancano i centri di riferimento, manca una legislazione nazionale per l’insegnamento, manca un albo professionale e mancano i percorsi alternativi a quello accademico. Forse è normale immaginare che in altri paesi si possa trovare di meglio. Ma se invece della fuga si opta per il restare, ci si deve rassegnare al fatto che l’offerta dipende dalla volontà di chi, tra scuole, festival e teatri, organizza laboratori e stages con presenze internazionali, e offre così una reale occasione di crescita per i danzatori e un incoraggiamento alla ricerca. Sta poi al singolo inseguire queste opportunità in modo continuativo e crearsi un percorso formativo del tutto personalizzato.

Non va infine trascurato un aspetto marginale alla formazione, ma non meno urgente e in parte complementare, che riguarda le opportunità di lavoro. Infatti, la danza italiana soffre della mancanza di un reale investimento pubblico nelle compagnie di danza e negli enti promotori, e questo mette a repentaglio la sopravvivenza della professione. Quanti aspiranti danzatori e coreografi sono ospitati nei teatri e nei festival italiani ogni anno? Quante audizioni si organizzano in Italia? Quante opportunità residenziali vengono offerte? Il mercato è sicuramente assetato e l’irrigazione si scontra con molti ostacoli cosicché solo pochi riescono a sopravvivere. Ecco che allora in Italia è il binomio formazione/lavoro a dover essere potenziato, affinché gli squilibri caratteristici del settore danza nel nostro paese possano essere eliminati e si possa dare vita a nuovi parametri, adeguandosi agli altri paesi europei. Solo in questo modo la professione dei danzatori avrà un reale riconoscimento e la danza potrà diventare un settore in cui investire.

 

 

 

 

 

 

Per approfondire:

 


 


di Eliana Amadio
     

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