Parlare di videodanza belga significa inevitabilmente delineare un paesaggio mutevole e complesso, fatto di tanti orizzonti quante sono le poetiche dei singoli autori coinvolti. In questo modo anche la definizione scelta, quella di videodanza, diventa, più che un'etichetta che formalizza un'area precisa di interventi artistici, una definizione di comodo per sintetizzare un insieme di pratiche che oscillano tra il cinema sperimentale, il teatro e la danza, le performing arts e le arti visive realizzate attraverso il video o pensate per lo schermo.
L'intero spettro di poetiche e visioni che compone questo panorama prismatico viene riproposto dal TTV Festival 08 - Confini, un'edizione che raccoglie e innesca il dialogo tra le varie anime di un universo artistico sfaccettato, in parte transnazionale, accomunato per questa occasione dal fatto di avvalersi del video come medium principe.
Volendo tracciare due traiettorie generalissime per attraversare la sezione Focus sul Belgio, si può guardare all'evidenza delle opere presentate e sottolinearne le macrocategorie. Il primo fattore accomunante, come è ovvio considerando il contesto, è l'utilizzo del mezzo audiovisivo, inteso in senso ampio e senza specifiche di formato e supporto, non solo quindi nell'evidenza conclusa del video ma inserito anche in performance e installazioni. Ovviamente non si tratta di un'acquisizione dell'oggi: considerato sia come oggetto filmico che come uno dei dispositivi applicabili all'universo performativo, il video ha raggiunto una generalità pervasiva e oramai storica in tutte la arti, e sono lontani i tempi in cui la si poteva chiamare pratica sperimentale tout court.
Tuttavia sono ancora possibili momenti di innovazione interni all'uso del linguaggio del video e al suo innesto con altri linguaggi, e il TTV scandaglia proprio questa zona, inseguendo non solo pratiche limite in grado di mettere in discussione sia lo statuto ontologico del mezzo che la sua forma, ma anche quelle situazioni ibride e mutanti in cui l'alchimia tra due linguaggi, come possono esserlo il video e la danza, è in grado di generare un universo espressivo autonomo in cui nessun elemento è ancillare all'altro. La forma audiovisiva cova in sé una duplice natura, o per meglio dire una duplice potenzialità: permette sia una restituzione paradossalmente ancorata al verosimile e insieme una fantasmagorica malleabilità che la rendono pratica di invenzione e immaginazione.
Questo la rende una delle messe in discorso più interessanti da applicare alla danza, in un travaso che storicamente ha assunto modalità plurime e spesso tangenti, condividendo lo statuto di ambiguità di una forma artistica sospesa tra gli stilemi e le necessità dell'audiovisivo e emergenze del corpo in movimento.
L'altra traiettoria di attraversamento è segnata dal corpo, sia come cellula germinale di ogni presenza e intenzione, sia come frontiera ultima su cui riversare le proprie ossessioni. Il corpo, fantasma di presenza e oggetto scavato e esposto come in Sand table di Meg Stuart o metamorfosi virata alla ricerca anatomica nel video dei The Dead Texan, o ancora screziato e liquido nelle opere di Antonin de Bemels, non smette di esercitare la sua attrazione e confermare la sua irriducibilità ontologica, ancora una volta portatore di virali ribaltamenti della visone comune, come nelle indagini di Karen Vanderborght attorno al gender. Corpo e video, movimento reale o trasformazioni della postproduzione, ritmo di un agire nel mondo o ritmo ricreato dalla pratica video, tutto viene esposto in una sezione che permette anche di attraversare le diverse modalità comunemente riunite sotto il nome di danza filmica, dal documentario all'opera riadattata per lo schermo, dalla documentazione di uno spettacolo alla coreografia pensata per l'occhio della telecamera.
La forma del documentario è uno dei modi dalla portata divulgativa sicuramente più ampia, perché permette uno sguardo insolito nel retroscena e nelle fasi di creazione della vita di una compagnia, combinando la danza con una quotidianità comunque eccezionale, in grado di catturare l'attenzione anche di non addetti ai lavori. La danza quindi può anche stagliarsi come panorama e sfondo (ma luminoso, imperfetto, fragile e fenomenale) per umanissime vicende di chi la vive e la porta in scena, come accade nel documentario Les Ballets C.de la B. par -ci par-là, un viaggio lungo vent'anni nel percorso della compagnia di Alain Platel che in questa occasione cura anche la regia del videoracconto, un'opera che permette agli spettatori, anche ai non appassionati di danza, di condividere l'avventura sia artistica che umana di questa compagnia, perché come sostiene il coreografo « i balletti sono danzatori che danzano e i danzatori sono persone che danzano ».
Un'altra opzione è quella della restituzione di un evento scenico attraverso la sua registrazione live, restituzione che ovviamente non sarà mai asettica e oggettiva, ma che si dovrà far carico di alcuni dei nuclei di senso del lavoro e sbalzarli dal resto, pur lasciando ben visibile le tracce e le radici del contesto performativo. Questo avviene in Dance e Ecstasy, tratto dallo spettacolo Vspr, sempre firmato da Alain Platel, catturato dall'occhio della camera diretta da Sophie Fiennes, nelle sue repliche di Avignone.
Un'altra opera video nata da uno spettacolo che deve la sua genesi al Festival d'Avignon è Here After, per la regia di Wim Vandekeybus. Il mediometraggio è un riadattamento cinematografico di Puur, una performance creata per Avignone nel 2005, e narra di una comunità isolata in cui i flash back e la danza evocano un inquietante passato.
Quella che Vandekeybus organizza per lo schermo è una danza estenuante e rapace che sembra esaurire, percorrendole, le radici dell'umano e rievoca la ferinità della natura, in un corpo-bestia mosso da pulsioni profonde, da acrobazie del desiderio, del mito e dell'immaginario. Tra scontri e attrazioni, con una qualità energetica che spesso porta al parossismo le capacità fisiche degli interpreti, quella del coreografo è una danza pervasa da una consonanza profonda, che agisce sia per analogia che per contrasto con l'ambiente che ospita o determina il movimento. Deserto o foresta, scogliera o abisso, così come pure architetture industriali magniloquenti o claustrofobiche, la danza filmica di Vandekeybus è capace di tramortire e rivitalizzare le consuete strutture narrative proprie del mezzo, con risultati spesso eccellenti in grado di catturare, per ritmo e resa visiva, ogni tipo di pubblico.
Per rimanere tra i grandi nomi della coreografia e della danza belgi, il Festival non poteva tralasciare quello di Anne Teresa De Keersmaeker, che coreografa due film diretti da Thierry De Mey, compositore e regista a cui l'edizione 2008 del TTV dedica un omaggio. Impossibile quindi, in questo ambito, non ripresentare Rosas danst rosas, lo spettacolo del 1983 che ha inaugurato la storia dell'omonima compagnia della De Keersmaeker. De Mey oltre che regista è anche autore della colonna sonora dello spettacolo, e rispetto alla realizzazione di Rosas danst rosas racconta: «Ho lavorato con Anne Teresa De Keersmaeker, premeditando con lei le regole del gioco e la struttura formale. Cercavamo, all'inizio, una forma chiusa al massimo, un vero e proprio muro strutturale contro il quale le quattro danzatrici si dovessero lanciare con tutte le loro forze. La struttura in questo caso era una specie di padrone implacabile, che imponeva al corpo l'impaccio, la velocità, il dispendio di forze. Tutto il vocabolario coreografico, al contrario, era situato a fianco del desiderio, costituito soprattutto di attitudini e impulsi sessuali. Tensione e contrasto, quindi, tra una forma fredda, predeterminata, irreversibile, che corre verso la sua logica conclusione, e il dono fisico delle danzatrici, ipererotizzate dalla ripetizione all'infinito di un piccolo numero di figure dalle connotazioni molto forti. E glorificazione, infine, del corpo come resistenza estrema alla messa in cifra».
L'opera musicale e filmica di Thierry De Mey ha incontrato i maggiori nomi della danza belga, di cui questo artista è stato interlocutore privilegiato: dalla stessa De Keersmaeker a Vandekeybus, al lavoro insieme alla altrettanto celebre sorella, Michèle-Anne De Mey, come nel film 21 études à danser, esplorando sperimentalmente le diverse modalità coreografiche e narrative della videodanza e mettendone sotto verifica le possibilità espressive. L'omaggio organizzato dal TTV propone, oltre a Rosas danst rosas; Fase, four movements to the music of Steve Reich il film che nel 2002 ripropone il debutto della coreografa di vent'anni precedente; One flat thing, reproduced, una visione personale del regista su una coreografia-culto di William Forsythe; Musique de tables, un'architettura di gesti e suoni dove il movimento produce la musica e Ma Mère l'Oye, in cui sulla musica del balletto di Ravel e immerse in una foresta nei dintorni di Bruxelles, alcune fra le più interessanti personalità della danza contemporanea danno vita alle figure della leggenda, dialogando con la natura che li circonda.
Thierry De Mey rivela di concepire immediatamente il suo lavoro, sia musicale che filmico « in funzione del movimento. Il mio modo di identificarmi con delle forme, anche se sono generate da processi completamente astratti, la mia maniera di impadronirmi delle figure musicali è quella di classificarle come cataloghi di movimenti. Anche i processi o una forma globali li penso soprattutto in termini cinematografici, come dei giochi di tensione, di suspense. In effetti una forma o un ritmo sono lo stesso processo di pensiero su due scale diverse». Ancora, continuando con le analogie tra la composizione e la danza, De Mey confessa di rifiutare «l'idea del ritmo come una semplice combinazione di intervalli e durate all'interno di una griglia temporale, lo concepisco invece come un sistema che genera cesure attraverso pause e nuovi sviluppi, una struttura ondulatoria, un gioco di slanci e cadute».
Sempre nell'ambito della re-immaginazione per il video di eventi nati per la scena, si situa una personale dedicata all'opera di Meg Stuart, in cui lo spettacolo originario è sia testo che pretesto per una divagazione attorno all'opera, nella creazione di diversi oggetti filmici che dall'evento scenico prendono le mosse per poi acquisire uno statuto autonomo. È questo il caso di una videoinstallazione, I thought I'd never say this, che nasce da una scena dello spettacolo It's not funny del 2006, per la quale il celebre drammaturgo dei Forced Enterteinment Tim Etchells, già in diverse occasioni collaboratore della Stuart, ha scritto il testo. Un'altra videoinstallazione, Sand table, nasce invece non da un singolo spettacolo ma da un complesso progetto performativo nomade e multiforme, che la Stuart ha realizzato tra il 2000 e il 2001, chiamando a raccolta artisti visivi, registi, musicisti, coreografi e danzatori dal titolo Highway 101, progetto ospitato in diverse città europee. Sand Table è apparso nella tappa di Parigi e Bruxelles ed è stato ideato insieme all'artista visiva Magali Desbaizelle. Questo lavoro è interessante perché, oltre alla resa estetica a un tempo raffinata e conturbante, è in grado di miscelare la visione della coreografa e della Desbaizelle, inaugurando un'ulteriore possibilità di morphing del corpo, frontiera che la Stuart è da sempre interessata a indagare, morphing rigorosamente carnale che trasforma i danzatori di Damaged goods (così si chiama la compagnia della Stuart) in corpi antenna capaci di captare e incarnare ogni cambiamento di stato, restituendo ogni sbavatura dell'essere al mondo. Sono poi presenti quattro film che si muovono attorno al percorso artistico di Meg Stuart per poi trovarsi su rotte differenti. In Meg Stuart’s Alibi Maarten Vanden Abeele, fotografo e regista, ricrea il famoso spettacolo ALIBI, una coreografia apocalittica nata come riflessione sul fanatismo e sulla violenza che in scena ripercorre tutte le forme del controllo e del dominio. Il regista propone una declinazione personale della riflessione scenica problematizzandone la danza, la parola, l’immagine e il movimento, e mettendo in un cortocircuito esplosivo la presa sulla realtà propria del lavoro e le sue inevitabili derive spettacolari.
In The invited Jonathan Inksetter reinterpreta per la telecamera una scena di Visitors Only, realizzato da Damage Goods nel 2003 dove personaggi che sembrano presi in prestito dall'universo paradossale di Lewis Carrol e dal serbatoio di cinematografica mania, danno vita a tormentose relazioni e a distorsioni percettive, giocando con un immaginario pop abbagliante e psichedelico.
Gli altri due film in programma sono del videoartista Jorge Léon, collaboratore della Stuart in diversi progetti. Between two chairs è un ritratto del danzatore americano Ronald Burchi, la cui condizione diventa esemplare per tutta una categoria, quella dei danzatori, costretti a vivere a cavallo di diverse burocrazie, non solo di diversi Paesi, situazione che spesso determina condizioni politiche e fiscali totalmente illegali. U bent hier / Vous ete ici / You are here è invece la riproposizione di quanto può accadere durante un'operazione chirurgica in anestesia totale, un altro di quegli stati liminali che la Stuart è solita affrontare nella sua ricerca.
Emergenti ed emersi
Il Belgio non è rappresentato solo da questi giganti, artisti famosi a livello internazionale, ma anche da ricerche più giovani, alcune già affermate, altre ancora in divenire, di artisti che gravitano sia attorno all'area delle Fiandre che in quella francofona.
«La scena artistica del Belgio è molto fertile in questo momento» - ci racconta Antonin De Bemels, ospite del Festival - «ci sono veramente molti artisti che operano in tutti i campi della creatività. Ma connesso a questa espansione c'è anche un problema di visibilità, questione niente affatto secondaria per chi come me lavora nel campo della videoarte. Per esempio non ci sono festival di videoarte o luoghi dedicati, e l'effetto paradossale è che io, per esempio, sono molto più famoso all'estero che nel mio paese. Le istituzioni iniziano adesso a rendersi conto di questa situazione e stanno prendendo i primi provvedimenti, per esempio da qualche mese è in atto uno stanziamento di fondi da parte della comunità di lingua francese volto a sostenere i film sperimentali. Prima di questa iniziativa non esisteva nessun tipo di sostegno istituzionale, e questa è la ragione per cui la maggior parte degli artisti francofoni è solita lavorare da sola, e in economia. Questa è anche una delle ragioni del sincretismo artistico di molte personalità, non solo in Belgio ma livello globale, e il “do it yourself” sembra l'unica strada praticabile. Io ho iniziato a creare le colonne sonore per i miei video perché sapevo come volevo che fossero e sapevo che nessun altro sarebbe stato disponibile a realizzarle. Inoltre tutto quello di cui avevo bisogno era un microfono economico e un computer. Adesso le persone mi domandano di creare delle colonne sonore per i loro lavori e a nessuno interessa la mia mancanza di competenza tecnica, è importante solo la mia “visione”. E questa è una cosa grandiosa ed è anche il nocciolo dell'esperienza artistica: prima metti a fuoco le tue idee, poi credi nel loro valore e i mezzi arriveranno!». Senza dubbio per Antonin De Bemels ha funzionato, visto che è presente al TTV con una decina di lavori di cui tre in prima nazionale. Dall'inizio della sua carriera De Bemels ha quindi fatto della sperimentazione la sua vocazione, esplorando la relazione tra il dispositivo visivo e il corpo, il gesto, il ritmo, il movimento. Un suo particolare trattamento dell'immagine, lo scrubbing, una specie di scratching applicato al visivo, è uno dei mezzi che utilizza per sabotare la dimensione temporale in cui si muove in corpo, straniando la percezione degli spettatori. Nel suo nuovo film sperimentale applica tecniche simili su materiali provenienti da un documentario sulla schizofrenia. Antonin cerca di ricreare sensazioni fisiche nette, usando suoni e immagini come un unico continuum percettivo per colpire i sensi dello spettatore: «Cerco di trattare il suono e l'immagine come un unicuum volto a colpire i sensi del pubblico. Sono affascinato dal corpo umano, quello che mi interessa principalmente è il movimento. Credo che questa sia la ragione per cui i miei lavori vengono chiamati videodanza, anche se mi sento di prendere le distanze dalla maggior parte delle opere che appartengono alla categoria. La danza filmica tende a essere troppo coreografica per i miei gusti, o troppo cinematografica. Io credo invece che debba essere videografica, ovvero considerare le specificità del mezzo per creare una particolare sensazione audiovisiva strettamente connessa al movimento e al corpo umano. Quello che realmente vorrei è che chi guarda i miei lavori reagisca con tutto il suo corpo. Questa è una cosa che accade molto spesso durante le proiezioni di Mouthface, che sarà a Riccione e che è uno dei lavori che preferisco perché l'ho realizzato di getto, in maniera spontanea e anche in un tempo relativamente breve. Ed è anche il lavoro che ha l'impatto più forte sul pubblico, durante la proiezione la gente ride, urla e a volte applaude!».