Questa volta cercherò di non rendermi complice dell’insaziabile tranello dei cappelli.
Esito di una celebrata reincarnazione o della sua reclamata immortalità, la signora Drammaturgia infatti va da qualche tempo in giro travestendosi con le più insospettabili vesti. Che la si neghi, la si celebri, la si riempia o la si svuoti, che la si etimologizzi o la si neoligizzi, che la si sventri e la si analizzi, che sia retaggio museale o riscoperta musa; insomma: che sia la Drammaturgia o una d qualsiasi, la democraticità del suo presente che ne consente l’inclusione nei più svariati salotti (compresi quelli raccolti intorno al piccolo schermo), nondimeno le restituisce pure un quid con pretese di esclusivismo… previa trovarne una definizione del momento.
Mi piacerebbe perciò questa volta provare a non de-finire per niente, ma iniziare piuttosto a mettere da parte la drammaturgia e accordarci in merito a ciò di cui parliamo.
Pochi giorni fa leggevo su “La Repubblica” un editoriale di wu ming in cui si contestava che, a dispetto dello stato moribondo dell’editoria italiana - dove ancora cerchiamo di definire quanti libri debba leggere una persona (e non quali, si badi) per essere giudicata “lettore forte” - oltreoceano si osserva la scrittura contemporanea italiana come il sintomo straordinario di una nuova ondata di letteratura epica con spessore qualitativo (ma anche quantitativamente rilevante) degno addirittura di destare la curiosità del pulpito di un’incubatrice di creatività invidiabile come il MIT. Ce ne eravamo accorti?
Io vorrei parlare, in questo senso, dello stesso strano fenomeno per cui si direbbe che - mentre da tanti altri più o meno eletti osservatori da cui, con altri più o meno privilegiati cappelli, mi è dato di rilevare scoramento, cedevolezza, assenza, collasso, tramonto, pigrizia, invecchiamento – in una certa stanza del teatro si festeggia almeno biennalmente la nascita di qualche nuovo erede di speranza. Insomma, con più continuità di quanto i dati statistici non diano da sospettare, si intravedono creature sublimi e miracolose anche in altri più remoti anfratti (Romagna felix docet…). E qui parlo della benemerita celebrazione pubblica che se ne fa, in questo caso a Riccione, durante il suo celebre premio per il teatro.
Intanto, potrei dire che a differenza di altri premi per cui mi è capitato di transitare - prendiamo pure le più significative manifestazioni negli ambiti editoriale letterario e di design architettura, cioè il Premio Strega e il Compasso d’oro – il Premio Riccione è l’unico a considerare opere inedite, talvolta di autori pure sconosciuti, comunque orfani del supporto domiciliare di imprese editoriali e non, consentendo loro di approdare ben oltre il pubblico riconoscimento astratto e incoraggiando concretamente la “produzione” fisica, tangibile e pubblica dell’opera.
Davide Enia (vincitore nel 2003) grazie al patrocinio della “Biennale Teatro” 2004, sotto la direzione di Massimo Castri, ha personalmente allestito per esempio il suo Scanna accanto ad altri due celebri autori celebrati nel 2001 a Riccione, il romano Celestini e la giovane Letizia Russo, che comparivano nella programmazione con due nuovi testi di successo. Sull’altro versante, nel febbraio 2007 al Teatro Metastasio-Stabile della Toscana è andato quindi in scena L’odore assordante del bianco (testo di Massini, premiato Tondelli nel 2005) già preceduto dal successo dell’omomimo autore Processo a Dio, allestito dalla Contemporanea a dicembre con la regia di Sergio Fantoni e Memorie del boia, presentata al Teatro di Rifredi nel 2004-05, tutti testi per altro editati, come quelli degli altri premi Tondelli, dal patron della Ubu, Franco Quadri, anche presidente di giuria del Premio.
Da allora si sono succedute scoperte di nomi che hanno siglato la più recente storia drammaturgica nostrana, alcuni dei quali, non a caso, annoverati anche nell’albo d’oro dei prestigiosi Premi “Ubu” come migliori novità italiane o con riconoscimenti speciali della giuria.
Andiamo avanti.
Non mi risulta poi che in altri concorsi, a parte il festival di Sanremo, alla “categoria giovani” sia corrisposto un così serio rilievo d’eccezione: e personalmente, oltre a non ricordarmi ovviamente nemmeno il vincitore dell’ultimo festival canoro, anche su quelli ufficiali del Riccione, per il quale pure ho più che tragittato, tentenno.
Sui cinque ultimi Tondelli invece farei tombola.
E puntare sui giovani per fare i numeri, non è da tutti.
Ma se il fatto di traghettarli premurosamente ne disincentiva innegabilmente lo smarrimento per strada, è certo che questi giovani fino a lì arrivano per proprio conto, facendo i conti con passati diversi, contando su diversi presenti.
E parlando di partenze e incoraggianti dipartite, come non fare almeno accenno al successo estero che i nostri drammaturghi in alcuni casi hanno raggiunto, a volte prematuramente rispetto alla visibilità italiana, attraverso modalità di residenze e commissioni da noi ancora inesplorate? “Nel caso di Fausto per esempio, anche se la cosa non era prevista tra i riconoscimenti di chi vincesse il Tondelli, è stata organizzata una residenza al Royal Court Theatre per un laboratorio estivo, da cui è nato un incarico per Genova01 che solo poi è diventata una produzione italiana, arrivando fino a Berlino… mentre un anno esatto dopo il National Theatre, con la mediazione di Barbara Nativi e Luca Scarlini, gli commissionava Peanuts (Noccioline in Italia), e questo in assenza di qualsiasi contributo del Ministero per gli affari esteri e con pochissimi fondi” (Fabio Bruschi, intervista a cura di Chiara Alessi, Premio Riccione 2005). Stessa cosa succedeva nel frattempo a Letizia Russo che, “al riparo dalla coltivazione diretta in casa – e col bisogno di uscirne per un po’ – con l’urgenza di rifugiarsi nel testo per obliare una scrittura indisciplinata, da sé ha partorito a Londra un testo di una ruvidità se possibile ancora più esaltante di Tomba di cani (vincitore del Tondelli 2001), cioè Binario morto con il quale si imponeva all’interno di un festival che ha ospitato diversi autori emergenti britannici. La romana si ricavava così nell’orticello anglosassone una nicchia in linea con il nuovo trend, portando in scena un gruppo di adolescenti alle prese con i grandi temi della violenza, la lotta per il potere, l’amore, l’amicizia, il servilismo e la religione, calati in quel solito suo mondo così reale da sembrare finto.” (Chiara Alessi, “Letizia Russo, Piccoli prodigi crescono”, Hystrio 2007).
In questo, secondo me, sta consistendo per esempio la lezione dei cinque Tondelli, nella buona pratica di sfruttare il “fattore d” per impostare una seria ricerca di andata e ritorno verso la casa drammaturgia (o checchessia!): un po’ perché le declinazioni soggettive e ariose di un mestiere in questo viatico hanno richiesto, e implicano tuttora, uno sforzo perenne di sperimentazione, quasi fosse la deriva positiva di una specie di debito all’investitura di talento, un po’ perché alla fine, e un po’ per tutti, la scrittura scenica (ahi, che sfortunato binomio da citare…) si è dimostrata effettivamente e affettivamente il loro mestiere.
E pure allevati nella stessa casa, pure dalla stessa madre, pure se fratelli quanto meno in senso ereditario dello stesso sorpassato sì, ma pur sempre fardello (un premio e il carico di soddisfarne le pretese di legittimità), a loro volta hanno generato ciascuno la propria drammatica famiglia, ciascuna con un dna diversissimo, ciascuna con gli stessi geni disposti in modo diversissimo.
Pensiamo ai due casi più recenti: Stefano Massini e Mimmo Borrelli (scoperto con la vittoria del Riccione già nel 2005 per Nzularchia): in questo senso avevo già dovuto parlare in passato di “due volti della drammaturgia italiana” (idem, intervista a Mimmo Borrelli e Stefano Massini, Transatti, ottobre 2005, Riccione Teatro), innanzitutto per lo strabismo delle tradizioni a cui dichiaravano il proprio debito, il teatro continentale europeo – da Carriere alla scrittura yddish - per Massini; i maestri della drammaturgia napoletana per Borrelli – da Eduardo a Moscato, da Viviani a Ruccello – ma pure per la diversa consapevolezza scenica per cui quest’ultimo ad esempio, nella stessa intervista che mi rilasciarono nel 2005, si dichiarava “un cantante, un gendarme di scena che ricrea sonoramente i propri tormenti ricercando un linguaggio diverso, del tutto immaginifico, quasi casuale” versus la ricerca ossessiva e filologica dei drammi di Massini, “tutti studiati nell’equilibrio sensibile tra invenzione, calcolo narrativo e affabulazione, dove accade che reali personaggi della storia - Kafka, Balzac, Van gogh, Jtzach Lowy ed Elga Frish - tanto minuziosamente ricostruiti, quanto privati dell’incidenza di un tempo e un luogo geografico necessariamente riconoscibili, si incrociano nella mente del loro autore come in una recondita ambientazione ingabbiante” (idem, Sulla Quadrilogia di Massini edita da Ubulibri, 2006).
Si tratta in fondo dei codici genetici intercambiabili con cui fa i conti un po’ tutta la dinastia della signora D: la lingua (balbettante, supernormale, vernacolare, dialettale, ideale), i personaggi (plurimi, spettrali, dozzinali, archetipici, virtuali), lo spazio-tempo, l’entrata-uscita, l’inizio-fine, il dentro-fuori, lo sguardo-ascolto, i segni-tattili, i corpi-sintattici, il confronto con la scrittura, la solitudine con la scena.
Eppure questo confronto si è compiuto nei casi più eccellenti in “una rinnovata combinazione con la scrittura scenica che non necessariamente si costruisce in negazione del testo ma piuttosto in vista di un ripristino della drammaturgia di drammaturgo con quelle complementari dell’attore e del regista, fino a condensare le tre componenti in un'unica personalità dinamica, cui oggi si fa frequentemente ricorso ad esempio con la modalità narrativa (come nel caso di Enia, per citare solo un altro celebre risultato con il successo di Italia-Brasile 4 a 3)” (cfr. idem, Introduzione alla 48^ edizione del Premio Riccione per il teatro).
Ho conosciuto personalmente quasi tutti loro e rileggendomi nelle interviste, che in parte ho citato qui, mi rammarico di come anch’io non sia scampata, oltre a tutto e oltre tutti, alla chiamata costante alla risposta nei confronti del loro mestiere, della propria scelta, del proprio intimo, della propria etichetta, del proprio perché: “Perché hai scritto questa storia?”. Come se la consapevolezza li rendesse più meritevoli, come se i drammaturghi dovessero appellarsi ad apollo per esistere o a dioniso per nascondere lo sforzo, lo studio e la fatica per fare del talento una scrittura riuscita.
Che bellezza invece che un certo teatro sembri testimoniare la possibilità di sfuggire alle leggi di marketing che dominano ormai la maggior parte dei settori che abbiamo eletto ad “artistici”, che possano permettersi di “esprimere – come si dice – la propria visione interiore”, senza dover pensare “vi piace? No, allora cambio”, che possano cambiare ogni stagione e transitare per altri lidi (vedi Paravidino con il cinema ma forse anche la Russo con la narrativa?), trovare un percorso di approfondimento unico e irripetibile (seppur in una tradizione più che battuta e più che egregiamente, come quella napoletana di Mimmo Borrelli), arrivare a capire solo molto più tardi cosa progetteranno, resistendo e ri-esistendo anche nel rapporto di avvicinamento, studio, lettura e traduzione (come Letizia Russo con l’esperienza portoghese), approfondire in verticale scavando in un terrirorio (una storia, un’isola, come quella di Enia), scegliere nell’orizzontalità un proprio riconoscibile andirivieni (penso a Massini e alla centralità dei suoi personaggi-drammi), sopravvivere alla clausura dei protettorati, non ridursi nel protezionismo.
E poi, rispetto alla componente di provincialismo frequentemente implicata dai concorsi, solo una scarsa percentuale di partecipanti al Premio Riccione ruota direttamente intorno al comune romagnolo, che anzi spesso lamenta estraneità, e la provenienza più copiosa si attesta felicemente dalle regioni del sud Italia, non mancando anche candidati residenti all’estero (Francia e Germania soprattutto) e mantenendo comunque negli anni un afflusso più o meno proporzionale da tutto il Belpaese.
Quindi infine: la provenienza eterodossa ed eterogenea di questi protagonisti ma anche l’essere emergenze selezionate da un sempre più folto numero di candidati, il che costituisce di per sé un’eccellenza luminosa nella litania reiterata contro il binomio giovani e successo.
E anche quest’ultimo termine è latore evidentemente di equivoci. Esiste una legge (in economia, perché al dams, chissà com’è non viene mai citata, ma esiste, giuro) che testimonia inequivocabilmente la crescita sbilanciata dei costi nell’arte (detta “legge di Baumol”: non mi ci inoltrerò per il sottile, ma devo aggiungere che vale in particolare per lo spettacolo dal vivo che non è soggetto a fenomeni, che so, di “quotazione” o “oscillazione del mercato” come avviene nell’arte visiva per esempio). Insomma la produzione dell’arte, è inevitabile che sia così, ha un costo che per statuto non prevede un pareggio con l’aumento della produzione, con cui si verifica il noto fenomeno delle “nascite postume” o leggendarie storie di teatranti e bettole…
Per cui quando parlo di successo, indipendentemente dal borderò, non intendo certamente quello economico. Ma, proprio per questa autorevolezza legislativa (curioso che non esistano leggi nel teatro se non relative alla sanzione della sua inefficienza economica…) è ancor più vitale che subentri tra artista e visibilità pubblica (perché l’arte ricade pur sempre tra i beni “pubblici meritori”) una veicolazione che ne incentivi la promozione; sia essa la pubblica amministrazione, la critica, un premio, perché no.
A questo punto: potremo anche non condividere quella scrittura, possiamo pure non considerarla “scrittura”, possiamo interrogarci indefessamente sul significato di “scrittura” in rapporto al teatro, possiamo paragonarla irrecuperabilmente a quella dei nobili predecessori scomparsi (quante volte ci sentiremo dire che il primo Riccione è stato vinto nei tempi d’oro da Calvino? Per non parlare, per citare il caso della letteratura, dei cento capolavori Strega e della loro parabola)… ma non possiamo negare che, ammesso che esista un continuum drammaturgico su cui ipotizzare picchi, ascendenze, vuoti o tratteggi, quello che è successo nelle ultime cinque stagioni del premio Riccione rappresenta comunque una spioncina luminosa, un indice brillante.
Un segnalatore speciale, per di più, non solo del fenomeno teatrale e del suo illuminismo drammaturgico, a fronte di un medioevo di rimozione e revisione, ma proprio del nostro tempo attuale e della sua varietà espressiva.
Insomma, saranno i posteri a decretare l’imperitura sorte dei prodotti nostrani, o la loro precarietà, sarà possibile solo tra altri quarant’anni dire se un’opera è in grado di essere citata come un’essere a sé stante, e ricordata indipendentemente dalla sua veste per esempio cinematografica o teatrale… Personalmente non credo sarà il destino dei testi (in senso lato) che popolano attualmente la realtà artistica; d’altra parte è fenomeno contemporaneo anche quello di vivere in un’alternanaza incessante e rapida più che mai dei sovrapopolatori della cosiddetta “pienezza” per cui il loro ciclo di vita si riduce infinitamente.
Sempre personalmente invece credo che, anche se singolarmente ciascuno dei protagonisti che ho nominato meriti un proprio approfondimento e uno speciale sguardo critico, anche se ciascuno insomma sarebbe esistito anche fuori e senza gli altri, il risultato che danno osservati fenomenologicamente sia superiore alla somma delle proprie incontestabili singolarità.
Un buco a forma di giovane drammaturgia teatrale nell’universo italiano, tanto più profondo quanto quantitativamente approfondito e qualitativamente calcato. Un’oasi in tanto brontolare che non solo ci fa bene silenziosamente festeggiare, ma che facciamo bene, foss’anche oltremisura, a celebrare.