Non a caso all’interno del programma ci sono nomi come quello di Arnoldo Foà, che sembra rimandare a una forma classica di spettacolo. In realtà la musica sposta tutti questi parametri. Diventa il paradigma per declinare un’idea di teatro che si concentra sul suono e sulla capacità del suono di essere oggetto della visione. Quando ascolto un suono è come se lo vedessi, perché procura in me un’emozione che si trasferisce sulla carne. Non c’è nulla di più pratico della musica: se ascolto un buon brano che mi crea una suggestione e voglio parlartene non posso far altro che fartelo ascoltare.
La cosa che mi affascina della musica è che dietro le note musicali è possibile per il musicista “sentire” il suono, perché la scrittura rimanda ad un suono. Ma è così anche per il teatro, quando il teatro sospende la concettualizzazione di ciò che vede ancor prima di vederlo. Quello che ho cercato di fare è allontanarmi da un teatro che concettualizza la materia che vede prima ancora di entravi in contatto.
Attorno a questo interrogativo – che si può sintetizzare in “come una drammaturgia musicale influenza una drammaturgia teatrale?” – ho invitato degli artisti. Li ho invitati a riflettere attorno alla dimensione “manifestativa” che il teatro, al di là della dimensione rappresentativa, condivide con la musica. E poi vedere come questa questione ha a che fare con un pubblico che viene disabituato ai programmi di sala. Strategicamente abbiamo scelto una modalità di spiegazione del programma ridotta all’osso, per fare in modo che lo spettatore entri in risonanza col territorio, lo attraversi imbattendosi nelle proposte artistiche. Sarà poi lui a dirci cosa è questo festival. Avere un pensiero attivo sullo spettatore è per me centrale.
Perciò bando alle consolazione del testo – andare a vedere quello che si conosce già –, bando alle istruzioni per l’uso, e soprattutto bando ad un modo di concepire il teatro che ci trova tutti concordi sul modo di concepire la rappresentazione al giorno d’oggi. Ad esempio, ho inserito nel programma le camminate della pro-loco.
Queste presenze, che non sono presenze legate alla forma spettacolo, ma tutte insieme compongono una drammaturgia. Non ho chiamato degli artisti a esporre il proprio lavoro, in una sorta di vetrina che è stata la logica imperante per i festival negli ultimi anni. Piuttosto è il tentativo di mettere tutti insieme a fuoco un’idea, che può svilupparsi solo a partire dal luogo che la ospita. E questo luogo è Santarcangelo, con le sue strade e le sue piazze, e con un’idea a monte nata 39 anni fa di creare un festival internazionale in un paese che non aveva spazi per il teatro – un grande coraggio non solo di inventare, ma di farlo in mezzo a una strada.
Da questo punto di vista l’iniziativa più importante è Santarcangelo Immensa, che cerca di dilatare la dimensione del festival riportandolo in strada. Si tratta di un bando rivolto a compagnie di danza e teatro per portare il loro lavoro, e hanno risposto oltre duecento realtà. Non c’è selezione di carattere estetico, solo di tipo tecnico e logistico, la capacità di autogestirsi e di autosostenersi.
Tu parli di voce come visione. La visione è molto legata all’immagine, che è stata uno dei terreni cruciali della ricerca artistica degli ultimi anni. Oggi però l’immagine, come a suo tempo la parola, sembra invischiata in un elevato tasso di retorica. Il suono e la sua immediatezza rappresentano uno scarto in questo senso?
La questione centrale è nell’idea di forma. L’artista ha un’idea, e per farla uscire allo scoperto ha bisogno di una forma. Quale forma cercare? Perché poi è la forma che si impone a livello sociale, politico. Io con la forma posso tradire l’idea, o posso tradire l’ascoltatore. In questi ultimi anni l’aggancio all’elemento visivo, ma soprattutto l’aggancio alla tecnica, ci ha messo in una condizione che ha puntato soprattutto ad espandere l’idea, invece di scavarla e approfondirla. Questo ha comportato una cattiva retorica – perché il teatro ha sempre a che fare con la retorica, ma quando mette in campo una cattiva retorica allontana l’idea da se stessa.
Da molto tempo abbiamo a che fare con un’arte che propone uno sguardo che non presuppone la personalità di colui che guarda. Si ragiona su qualcosa che ci interessa e lo si riveste di una sorta di teorizzazione che, soprattutto nell’ambito teatrale, ha a che fare con i nomi di due o tre filosofi. Tutti leggiamo Deleuze, tutti abbiamo a che fare con Agamben, ma soprattutto tutti abbiamo a che fare con una certa tipologia di linguaggio dalla quale è impossibile prescindere per poter accedere nell’ambito del teatro italiano in questo momento. Basta guardare alle giovani compagnie, che si trovano nella condizione di avere un’idea e poi di dover trovare tutte le mediazioni possibili, teoriche ed espressive, per giustificarla. O per far sì che sia molto chiara per il pubblico, come se il pubblico avesse bisogno solo di chiarezza. È un processo che ha a che vedere con la didascalia e che porta alla cattiva retorica.
La musica è lo strumento per trovare una forma che sia più sottile possibile, scarnificata da tutta una riverenza alla tecnologia, per rendere più evidente l’idea. Quando l’apparato spettacolare allontana l’idea, allontana anche lo spettatore – o almeno uno spettatore attivo, partecipe, potremmo dire infantile, cioè in grado di sospendere la logica. Di sospendere il linguaggio, per vedere il mondo attraverso i cinque sensi. È questo per me lo spettatore interessante, perché contiene in sé un potenziale rivoluzionario che scardina l’andamento prevedibile della cultura. Quando mi trovo davanti a uno spettacolo che presuppone questo tipo di spettatore, posso dire che mi piace “in prima persona”, non per ciò che rappresenta o dice.
Oltre alla musica, l’altro concetto cardine di questo festival è il territorio. Si torna alla dimensione di piazza e tutta la manifestazione si svolge a Santarcangelo, anziché sparsa per vari comuni. Questo rapporto col territorio è qualcosa di imprescindibile, oggi, per una manifestazione culturale?
Chi organizza deve entrare nel vivo del luogo in cui le cose accadono. Qui il teatro ci aiuta, con il concetto di drammaturgia. Non posso pensare alla drammaturgia solo come organizzazione del mondo che vado a rappresentare. Drammaturgia è anche il contatto tra lo spettacolo e il luogo che ospita quello spettacolo. Ogni luogo ha dei “fantasmi”, che parlano e con i quali occorre rapportarsi. Il territorio è il libro da leggere, non è un contenitore che va riempito. I contenitori allontanano i pubblici più giovani: basta guardare a certe programmazioni di club, che riescono a proporre gli stessi interventi musicali più volte facendo sempre il tutto esaurito; una riproposizione di spettacoli, nella logica di un cartellone teatrale, è invece impraticabile.
A me interessa molto il rapporto con un pubblico giovane, composto da una generazione che solitamente non va a teatro. Che cosa ha la musica in più del teatro, o cosa ha smarrito il teatro che è in grado di attrarre? Nel passato accadeva che si andasse a vedere più volte uno spettacolo, oggi è quasi impossibile. Perché si è persa la dimensione del coinvolgimento del pubblico.
Ma lo “spettatore neutro” di cui parli, che reagisce coi cinque sensi, non esaurisce più facilmente la curiosità? Come dire: esaurita la sorpresa, esaurito l’interesse.
Dipende da come incanali questa reazione. Se tutto è pensato attorno a una tecnica, che è quella del teatro, allora l’effetto si esaurisce. Il cosiddetto pubblico degli abbonati è un pubblico che “vuole capire” interamente ciò che vede; per questo quando incontra proposte che non conosce, tende a non fidarsi e non va a teatro. Ma negli spettacoli frequentati da questo tipo di pubblico tu non trovi pubblico giovane, che cerca un altro tipo di rapporto con lo spettacolo.
Con questo non voglio dire che tutto ciò che è giovane è valido; trovo anzi che molto teatro delle giovani generazioni abbia dei tratti reazionari, e questo mi preoccupa molto. Ad esempio per Santarcangelo Immensa mi sono capitate proposte che si esauriscono nella messa in scena di un testo classico: come a dire che ciò che interessa è l’atto teatrale in sé, non un’idea forte da approfondire e condividere. È un atteggiamento settoriale, secondo me. Se invece si fa i conti con l’idea, cioè con l’urgenza di dire qualcosa, allora il teatro si proietta immediatamente in una dimensione più ampia, al pari delle altre arti contemporanee. Non si può ingabbiare il teatro in una definizione settoriale, perché il teatro è un’arte che sfugge alla sua definizione. Uno dei sensi di fare teatro e nel continuo interrogarsi attorno ad esso, reinventandosi ogni giorno.
Santarcangelo Immensa apre il festival alle realtà artistiche che non sono scelte da una direzione, a patto che si autosostengano. Non c’è il rischio di creare un cartellone “alto” e un cartellone “basso”?Dietro questa questione c’è il grande problema del denaro. Il programma del festival è la prima risposta che ho dato per concretizzare la mia idea di direzione, ma Santarcangelo Immensa ne fa parte a tutti gli effetti. Anzi, è il tentativo di estremizzarla, ne è quasi un’iperbole. Santarcangelo Immensa è fondamentale: è inserita nel catalogo, che è ciò che resterà come memoria di questo festival; ne parlo teoricamente; è inserita a livello programmatico nei percorsi che la gente farà, al pari degli spettacoli in programma. Non è pura autogestione. È un’alternativa per il pubblico, che può partecipare a degli eventi a pagamento che fanno parte del programma, ma anche godere gratuitamente del lavoro di tanti artisti la cui esigenza è confrontarsi con il pubblico. Questi artisti non sono lasciati a se stessi, ma hanno a disposizione un attacco di corrente e un tecnico che verifica le condizioni generali, perché bisogna confrontarsi con la burocrazia, che quasi non contempla situazioni del genere. Mi sono assunta la responsabilità civile per qualunque cosa possa accadere per dare una piazza agli artisti che sia terreno di incontro per loro e per il pubblico. Di più non era possibile fare, perché il festival partiva con un deficit ereditato dalle pessime gestioni degli anni passati.
La tua è una conduzione che inaugura una triennalità condivisa con Enrico Casagrande e Ermanna Montanari. Quale è la discontinuità più grande rispetto al passato?
Essendo artisti portiamo dentro l’organizzazione la nostra esperienza nata dalla pratica del fare teatro. Ma anche un bagaglio di relazioni che ci permette di far venire artisti di fama internazionale a costi ridotti, perché vengono in adesione ad un progetto. Io personalmente ho lavorato con Massimo Simonini del festival AngelicA, un rapporto che mi ha permesso di portare dei musicisti straordinari.
La metodologia che un artista può mette in campo è diversa da una puramente organizzativa, e questo è interessante. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: l’artista che vede dall’interno la macchina del festival, che solitamente lo ospita. La possibilità di confrontarsi coi suoi meccanismi e di poterlo fare con un taglio anche qui “artistico”. Difatti, la prima cosa grande discontinuità è rispetto all’idea di vetrina, impostata sul nome degli artisti. L’edizione 2009 di Santarcangelo è pensata come un intervento omogeneo, non un insieme di grandi nomi e di spettacoli più o meno convincenti.
Siamo stati criticati per questa scelta di cambiare direzione ogni anno: ci è stato detto che in un festival già “scoppiato” questo significava frammentarlo ancora di più. Invece noi partiamo da presupposti comuni, che poi ognuno di noi, con la propria sensibilità di artista, potrà declinare attorno a uno specifico progetto annuale. Ogni anno si ricomincia, è vero – ma il nostro è anche un tentativo di sottolineare il fatto che fare una direzione artistica non significa necessariamente avere il nome giusto al momento giusto.
La crisi economica comporta immediatamente una contrazione degli investimenti sulla cultura – come se questo non volesse dire lasciare senza lavoro un gran numero di persone tra artisti, tecnici, organizzatori, uffici stampa. Quali strategie di sopravvivenza possono essere messe in campo?
La crisi è evidente. La speranza che ci spinge a proseguire è che si possano salvare degli ambiti in cui la cultura possa trasformarsi in ricerca estetica. Anche dal punto di vista di chi amministra. Si può tagliare la cultura indiscriminatamente solo quando non si ha la benché minima percezione di cosa sia e degli effetti che produce. Questo è stato il paradigma di questi anni, anche quando i soldi c’erano. Oggi si taglia indistintamente perché ieri si è preso tutto indistintamente. Invece anche un taglio estetico ha una responsabilità politica, perché afferma un pensiero piuttosto che un altro.
Questo atteggiamento non ci fa capire dove siamo. Gli spettacoli si sono spostati indistintamente da una piazza all’altra senza un criterio. Il risultato è stato di grande confusione. Oggi invece la cultura teatrale si sta spostando molto sull’idea di residenza, che ha a che veder con la cura effettiva dei progetti, con il loro accompagnamento, e questa la trovo una cosa centrale.
La crisi deve essere un’opportunità di rilancio, per ripensare a come è stata gestita la cultura fino a oggi. Perché la crisi non parte dall’oggi al domani, ma nasce nel momento del fulgore. Cosa è successo negli anni passati? Quanti soldi si spendevano e per chi? Bisogna porsele queste domande, anche perché sembra che il taglio vada a ricadere sulle compagnie giovani e sullo spettacolo contemporaneo, che è invece la parte che assorbe meno soldi. Il teatro classico e la lirica, che si portano dietro vizi economici pazzeschi, invece verranno toccati molto meno; ma così facendo si uccide il futuro che sta nascendo.
Ci si può attrezzare per vivere in questa situazione, e si può farlo attraverso un fare teatrale che è allo stesso tempo azione politica. Anche a livello pratico. È inutile che le compagnie giovani, ad esempio, elaborino spettacoli complessi e costosi, perché non gireranno mai. Bisognerà fare spettacoli ridotti all’osso, ma carichi di un’idea forte che gli permetta di essere richiesti. Voluti.
Il sistema fino ad ora, invece, si è sempre concentrato sul nome dell’artista, sul suo divismo che fa spendere un sacco di soldi. E i nomi degli artisti sono sempre andati di pari passo a quelli dei politici: nella politica come nell’arte è il personalismo che detta legge e svuota di senso il lavoro. Bisogna contrastare questo personalismo, che è presente anche e soprattutto nella gestione dei soldi, e questo è tanto più scorretto perché si tratta in entrambi i casi di soldi pubblici.
Dal punto di vista dei contenuti, l’arte come rispondee alla crisi, che è economica ma anche antropologica e sociale, a giudicare dall’affermarsi dei partiti xenofobi nelle recenti elezioni europee?
Ti rispondo come artista. Io non do mai una risposta a un obiettivo che devo raggiungere. La risposta, come forma, viene fuori da sé perché di qualche cosa mi accorgo. L’interrogativo che mi pongo è: di cosa ci siamo nutriti, culturalmente? E me lo chiedo soprattutto in relazione dell’infanzia, perché la crisi della cultura nasce dal nostro modo di concepire il nostro rapporto culturale con l’infanzia. L’infanzia ha un grande potere rivoluzionario, perché è in grado di scardinare le logiche su cui si poggia – e spesso si sclerotizza – la cultura degli adulti. Eppure noi tentiamo di arginarla, cercando di evitare che i bambini entrino in contatto con alcuni aspetti della vita. Come la morte. Io mi sto interrogando ad esempio sul rapporto rispetto alla morte degli animali. Un tempo era normale per un bambino vedere i propri nonni o genitori uccidere le galline, i conigli. Oggi si mangiano gli animali ma non si può vederne la morte: se facessi assistere un bambino a una scena del genere verrei accusata di traumatizzarlo. Con il «Teatro anatomico infantile», dove si apriva un pesce e dentro c’era un biglietto, ho avuto grandi problemi. Ai bambini è negato l’accesso al funzionamento delle cose, non possono più guardarci dentro. Invece un tempo i giochi migliori erano quelli che potevi rompere per poterci guardare dentro. Questo processo ha una grande forza visionaria e rivoluzionaria, che è stata preclusa. Per questo, io credo, si assiste a tante proposte “reazionarie” nel panorama artistico più giovane.
In Giappone mi sono trovata a discutere sulla validità della violenza nella fiaba, come se il rapporto tra fiaba e violenza fosse una mia invenzione: è talmente forte lo stimolo della scuola pubblica a preservare i bambini dalla violenza che si arriva a negare la realtà. Questo fa si che la nostra cultura si imbeva di ipocrisie, di cattiva retorica.
Ma è così non solo per i bambini. Ad esempio in teatro oggi non è più possibile accendere una fiamma viva, che è intimamente connessa alla storia del teatro, alla creazione delle ombre. Puoi chiedere tutti i permessi del caso, ma è quasi impossibile. Come se non avessimo le tecniche per controllarlo. Per questo penso che ogni gesto estetico, portato fino in fondo con acribia, può spostare le cose e cambiare di un poco la società. Riuscire ad accender un fuoco in scena cambia un poco la legge, forza i confini.
[da Carta n°23/2006]