Sappiamo che la tua biografia è legata a doppio filo alla storia di questo festival. Vorremmo partire con un tuo racconto, da Santarcangelo negli anni '80 a Santarcangelo 39...
Da Santarcangelo ho praticamente iniziato la mia storia con il teatro. All'inizio degli anni '80 ero a Modena, alle soglie di una scelta che avrebbe poi segnato un po’ tutta la mia vita fino ad oggi. Il festival di Santarcangelo negli anni ’80 fu "un inizio al limite della preistoria", era una fusione totale tra il paese e il consorzio che organizzava la rassegna, grazie anche alla figura di Romeo Donati. Donati aveva sostanzialmente inventato la presenza del festival all’interno di Santarcangelo, in assoluta controtendenza rispetto a un periodo storico che vedeva ancora il teatro rinchiuso. Camminando per la strada respiravi quest’atmosfera, il paese e il festival erano una sola entità inscindibile. Tu potevi entrare in qualsiasi locale pubblico o bar, case private e dire “salve, sono Fabrizio del festival, stiamo facendo questa cosa”. Io ricordo quando facemmo qua I diavoli di Els Comedians, che era una parata con fuochi d’artificio che partiva da Piazza Galassi e scendeva per concludersi con danze e balli allo Sferisterio: per due giorni consecutivi posizionammo su tutti i balconi circostanti i fuochi d'artificio, e tutti i cittadini ci dissero “prego entrate”. Noi andavamo con il nostro candore, anche un po’ adrenalinico perché dovevamo risolvere dei problemi, e la gente ci accoglieva. Ho lavorato per sei anni dall'81 all'86, questo è stato il mio inizio, mi sono innamorato del "concetto" di festival qui. Io arrivo dopo già due festival con la direzione di Bacci. L’81 è diretto da Attisani, con Laurie Anderson che arriva per la prima volta in Italia, sull’onda del successo di Oh superman. Seguono due anni di direzione di Ferruccio Merisi, del Teatro di Ventura, che era il gruppo residente in paese, e poi altri due anni con la direzione di Bacci. Sono gli anni dell’Accadenia Rucuma, dei Magazzini criminali, dell’Odin theatre... c'è quindi questa occupazione di ogni spazio della città, sono prevalentemente tutti spazi all’aperto, ma sono anche i primi anni in cui si inizia a usare il Lavatoio appena ristrutturato. La mia fortuna è stata quella di capitare in un grande momento di transizione e di evoluzione. Vi ho raccontato l'inizio. La cosa stupefacente per me, dal mio osservatorio personale, è che questo 2009 sembra essere l’anno del tempo rotondo.
Per me si chiude una sorta di cerchio, cominciato in quegli anni e poi interrotto. Ho fatto altre cose, e anche qui le cose sono cambiate. Chiara Guidi ha chiamato me e Marco Olivieri per proporci di lavorare al festival. Noi abbiamo accettato subito, sull’onda di un’idea, di una condivisione di un progetto artistico. Il progetto ci era parso coraggioso anche dal punto di vista di un possibile rinnovamento di un’idea di festival, soprattutto all’interno di questa città. Santarcangelo Immensa, con le piccole ansie che avevamo all'inizio, ci ha coinvolto all'interno di un entusiasmo, di un'energia. Non si è trattato soltanto di un’apertura nei confronti dei gruppi e di tutti coloro che desiderano confrontarsi con un pubblico, gruppi con i quali abbiamo avuto modo di parlare e confrontarci. "Immensa" si è rivelata
una chiave di volta per il festival e per la città.
Noi non abbiamo vissuto gli anni di cui parli, ci sono stati raccontati, li abbiamo "letti". La sensazione è che ci fosse un bisogno diffuso di teatro. Non si trattava come oggi di un cerchio di appassionati e addetti; chiunque o quasi poteva ritenere importante il teatro per la propria vita. Insomma, non c'erano "cerchi". E' così?
State parlando di una cosa tipica di quegli anni, a livello non solo teatrale. La gente era molto stupita e sorpresa già solo nel trovarsi di fronte alla rappresentazione in tutte le sue forme. Questo grazie anche al clima storico e sociale della fine degli anni '70 e i primi anni '80... erano gli anni del "decentramento", il teatro usciva nelle strade, sull'onda del Living, di Barba e di tutti gli altri che avevano aperto dei percorsi. Questo bisogno, questo desiderio, stava sempre sul confine della "curiosità". Ecco, penso che questa parola sia importantissima per parlare di quegli anni. C'era, infatti, la possibilità da parte della gente di farsi ancora sorprendere e stupire e da parte nostra il desiderio di mettersi in gioco e di rischiare. Allora dico: non era un cerchio allargato, ma un grande movimento.
A Modena, nei paesi come questo, a Dro, che già allora cominciava, ci si rendeva conto che era presente una marea. C'era molta gente che si lasciava permeare, da una parte, e dall'altra c'era una grande voglia di entrare dentro ai territori, conoscere le situazioni. Era importante allora, come è stato per questo festival, avere attorno a tutte le azioni teatrali un corpo vivo, in movimento.
Hai detto che a Santarcangelo, in passato, ti sei innamorato del "concetto di festival". Quale concetto ancora oggi ti fa "innamorare"? Lo ritrovi a Santarcangelo 39?
Il festival penso debba essere qualcosa di "dolcemente invasivo". Qualcosa che si appropria dei luoghi, li vive e li fa vivere. Una sorta di corpo che respira, che si muove, che non può stare fermo. La forza di un festival sta nel non essere mai statico, nel prevedere un rapporto di visione duplice, mobile e sfaccettato. Qualcosa che prende gli angoli, che avvolge le case, che si distribuisce. Santarcangelo è fatto così, è arrocato su un'altura, ha una struttura dal basso verso l'alto. Quando si sale e si vedono crocchi di persone, a seguire "Immensa", io rivedo scene di allora, e mi commuovo.
Salire le scale, arrivare lassù, incontrare persone giunte per caso, passanti che si fermano, o anche curiosi che hanno seguito un percorso... io vedo un serpentone che si muove, e questo mi fa pensare che il concetto di festival è la relazione. Se un festival non crea una relazione orizzontale non è un festival, ma una vetrina, un supermercato, e a me non interessa. Il mio lavoro, il nostro lavoro, è essenzialmente relazione tra di noi e con ogni "cerchio" successivo che incontriamo. Questo festival è tornato a mettere al centro la relazione, ne sono convinto. La presenza di Chiara Guidi è vitale, lei "tesse" e noi abbiamo apprezzato questa sua grande tela, ci siamo lasciati tessere. Ovviamente siamo arrivati con qualche preoccupazione. Io tornavo dopo 25 anni, molti non erano mai venuti. All'inizio l'aria che si respirava era un pelo più greve. Si avvertiva una distanza, una microdiffidenza della città nei nostri confronti. Piano piano, lavorando, siamo entrati nel tessuto urbano, abbiamo cominciato a chiedere, andando bar per bar e casa per casa, come è accaduto per Immensa. Ora la percezione è che molti si siano avvicinati, dai cittadini alla stampa locale, riconoscendo il valore di rilancio che ha questo festival per la città nel suo insieme, cosa che non accadeva da anni. Lo vedo nelle facce della gente, da come ti salutano, da come ti rispondono se fai loro delle domande e da come tu rispondi loro. Quando si organizza un festival, occorre "occupare meno spazio possibile", come ha detto Chiara Guidi. Quando si calpesta il suolo di un paese che non è il tuo è fondamentale essere lievi.
Noi non abbiamo vissuto gli anni di cui parli, ci sono stati raccontati, li abbiamo "letti". La sensazione è che ci fosse un bisogno diffuso di teatro. Non si trattava come oggi di un cerchio di appassionati e addetti; chiunque o quasi poteva ritenere importante il teatro per la propria vita. Insomma, non c'erano "cerchi". E' così?
State parlando di una cosa tipica di quegli anni, a livello non solo teatrale. La gente era molto stupita e sorpresa già solo nel trovarsi di fronte alla rappresentazione in tutte le sue forme. Questo grazie anche al clima storico e sociale della fine degli anni '70 e i primi anni '80... erano gli anni del "decentramento", il teatro usciva nelle strade, sull'onda del Living, di Barba e di tutti gli altri che avevano aperto dei percorsi. Questo bisogno, questo desiderio, stava sempre sul confine della "curiosità". Ecco, penso che questa parola sia importantissima per parlare di quegli anni. C'era, infatti, la possibilità da parte della gente di farsi ancora sorprendere e stupire e da parte nostra il desiderio di mettersi in gioco e di rischiare. Allora dico: non era un cerchio allargato, ma un grande movimento.
A Modena, nei paesi come questo, a Dro, che già allora cominciava, ci si rendeva conto che era presente una marea. C'era molta gente che si lasciava permeare, da una parte, e dall'altra c'era una grande voglia di entrare dentro ai territori, conoscere le situazioni. Era importante allora, come è stato per questo festival, avere attorno a tutte le azioni teatrali un corpo vivo, in movimento.
Hai detto che a Santarcangelo, in passato, ti sei innamorato del "concetto di festival". Quale concetto ancora oggi ti fa "innamorare"? Lo ritrovi a Santarcangelo 39?
Il festival penso debba essere qualcosa di "dolcemente invasivo". Qualcosa che si appropria dei luoghi, li vive e li fa vivere. Una sorta di corpo che respira, che si muove, che non può stare fermo. La forza di un festival sta nel non essere mai statico, nel prevedere un rapporto di visione duplice, mobile e sfaccettato. Qualcosa che prende gli angoli, che avvolge le case, che si distribuisce. Santarcangelo è fatto così, è arrocato su un'altura, ha una struttura dal basso verso l'alto. Quando si sale e si vedono crocchi di persone, a seguire "Immensa", io rivedo scene di allora, e mi commuovo.
Salire le scale, arrivare lassù, incontrare persone giunte per caso, passanti che si fermano, o anche curiosi che hanno seguito un percorso... io vedo un serpentone che si muove, e questo mi fa pensare che il concetto di festival è la relazione. Se un festival non crea una relazione orizzontale non è un festival, ma una vetrina, un supermercato, e a me non interessa. Il mio lavoro, il nostro lavoro, è essenzialmente relazione tra di noi e con ogni "cerchio" successivo che incontriamo. Questo festival è tornato a mettere al centro la relazione, ne sono convinto. La presenza di Chiara Guidi è vitale, lei "tesse" e noi abbiamo apprezzato questa sua grande tela, ci siamo lasciati tessere. Ovviamente siamo arrivati con qualche preoccupazione. Io tornavo dopo 25 anni, molti non erano mai venuti. All'inizio l'aria che si respirava era un pelo più greve. Si avvertiva una distanza, una microdiffidenza della città nei nostri confronti. Piano piano, lavorando, siamo entrati nel tessuto urbano, abbiamo cominciato a chiedere, andando bar per bar e casa per casa, come è accaduto per Immensa. Ora la percezione è che molti si siano avvicinati, dai cittadini alla stampa locale, riconoscendo il valore di rilancio che ha questo festival per la città nel suo insieme, cosa che non accadeva da anni. Lo vedo nelle facce della gente, da come ti salutano, da come ti rispondono se fai loro delle domande e da come tu rispondi loro. Quando si organizza un festival, occorre "occupare meno spazio possibile", come ha detto Chiara Guidi. Quando si calpesta il suolo di un paese che non è il tuo è fondamentale essere lievi.
Costanza Alegiani e Lorenzo Donati