Intervista a Chiara Guidi
Cosa vedono i bambini dentro a Teatro anatomico infantile
Esiste questa domanda perché il pubblico non entra dentro la casa, e quindi si crea questo interrogativo. Mi sono posta anch'io questa domanda: “cosa succederà quando tutto quello che ho immaginato sarà attraversato dai bambini, abitato dai bambini?” Ho immaginato questa opera con un rigore dettagliatissimo, ho progettato tutti i tempi, perché la musica per poter entrare ha bisogno di una scansione matematica. Sapevo che questa casa sarebbe stata abitata, per pochissimo tempo e concentratissimo, da dei bambini in una fascia d'età (dai 7 ai 10 anni) dove la capacità di leggere è abbastanza agile. Mi sono posta il problema se questi bambini tutti i giorni sarebbero dovuti cambiare o se dovevo tenere sempre gli stessi. Alla fine ho capito che dovevano essere sempre gli stessi perché nella ripetizione viene trovato il senso delle azioni. È di grande importanza ritrovarsi mezz'ora prima, dirsi quello che si sta per fare, ma non dando delle spiegazioni, anzi anche chiedendo loro cose completamente diverse da quello che faranno. Le domande scorrono parallelamente al lavoro: per esempio, visto che nella casa c'è un vero e proprio tacchino arrosto, reale ed enorme, si è parlato di come si uccide un animale per poi poterlo mangiare. Collocato in un luogo senza l'apparato della mensa, del desco, quello che ne risulta è un'immagine fortissima: il tacchino con le sue zampe, la carne che mangiamo tutti i giorni, è un oggetto fuori posto. La reazione dei bambini è molto interessante perché nella ripetizione stanno sempre di più dentro a questo meccanismo. Il reiterarsi dei gesti, l'andare sempre negli stessi spazi, lo sguardo che arriva davanti ad un immagine e la vede per quello che è, sono esempi che portano con sé un'idea molto forte di infanzia. I bambini secondo me sono il pubblico di questo festival. Ho fatto un lavoro sull'infanzia perché l'infanzia è ciò che desidero possa vivere nello sguardo di chi cammina lungo le strade di questo paese. Anche il semplice vedersi e rivedersi lungo le vie scatena dei saluti molto infantili, siamo ancora qui, ci rivediamo, e sembra quasi un meccanismo di gioco, il fatto di salire e scendere. C'è un tacchino, è presente un tacchino arrosto, quello è uno spettacolo, è assolutamente quella materia lì. Io mi fermo davanti alla materia, mi aspetto che quella materia mi apra una breccia per poterle entrare dentro. Non costruisco io una breccia, ma quella materia quella intensità del mio sguardo può creare un punto di rottura di dilatazione. Questo è interessante: un bambino non applica un ragionamento sulla materia, ma la materia si porge al bambino nel momento della frattura. Nel momento in cui si crea uno scasso, nel momento in cui si crea una ferita, è la ferita che porta luce dentro alle viscere. La forza dell'anatomia è proprio questa portare luce dentro alla materia che di solito vive al buio, come nel percorso fiabesco. Questa idea di anatomia si basa sul fatto che le cose si possono fratturare con lo sguardo, per l'intensità dello sguardo grazie al potere magico, che questo può avere. Cerco la possibilità di far parlare animisticamente un tacchino, di far sì che la pianta pronunci i suoi sentimenti, l'obiettivo è sfondare una realtà che è divisa per schemi logici, che giustamente deve essere divisa per schemi logici, ma che può anch'essa incrinarsi, e darci la possibilità di vederla, internamente, senza quelle leggi. Si crea una sorta di sovvertimento dell'ordine, una situazione nella quale solo l'infanzia può portare ad una condizione quasi rivoluzionaria. I palloni che si alzano verso il cielo in tutta Santarcangelo in realtà assolvono il compito di sollevare Santarcangelo da terra. Il risultato è che noi camminiamo su questa terra che si solleva e che di fatto non è altro che l'immagine della nostra terra, buttata in uno spazio nero, che porta luce nell'oscurità.
Mi è piaciuto anche attraversare un mondo di parole fantastiche, come per esempio ripetere queste frase “alé alé noi parliamo con un chi che non c'è”, infatti non c'è niente , non succede niente, eppure parlo. Maxwell all'incontro
con il pubblico del 5 luglio ha parlato del teatro come atto di follia, come una grande messa in scena, questo è il nucleo centrale del fare teatro: fare il grande lavoro che questo richiede, ma per che cosa, per quale realtà?
Con il mio lavoro ho scelto di entrare ancora di più dentro la realtà, non di fuggirla, ma di agire sulla delocalizzazione dello sguardo per portare una luce dentro ad un “chi che non c'è”, per poter parlare con un “chi che non c'è”. Non posso prendere per mano la musica e portarla a qualcuno, non è un personaggio, non è un attore, è una voce che non è afferrabile. È possibile invece il dialogo con questa voce che però non c'è, questa è l'anatomia:
lo sguardo di questo pubblico che può inventarsi un festival.
Conoscere e crescere attraverso la rottura della materia
Ero partita da un'idea molto concreta di rottura degli oggetti all'interno della casa, poi mi sono accorta che per un lavoro di questo tipo occorre un tempo più disteso. Mi colloco in questa casa, ma dentro la rottura, perché nel momento in cui i bambini ripetono le frasi già praticano una sorta di anatomia. Questo è molto importante anche in relazione al festival, si tratta infatti non di farlo, ma di renderlo materico. É necessario essere anatomia e non farci un pensiero sopra, bisogna diventare la materia: la sedia è esattamente il cavallo non grazie a un processo razionale, ma perché il mio corpo è diventato un cavallo, io sono diventata la mucca. Il bambino, più di chiunque altro, ha questa possibilità di scardinamento, perché diventa se stesso, è lui frattura e dilatazione, non ha una compattezza unitaria, ha la possibilità di sentire le cose, non di pensarle, e, sentendole, scardina un confine. E proprio il sublime è lo scardinamento del limite. Andare al di là è il processo artistico per eccellenza. Potevo non fare Teatro anatomico infantile a Santarcangelo, ma era necessario per questa idea di festival lavorare con l'infanzia: stare con i bambini chiusa in uno spazio piccolissimo, insieme a degli oggetti ed essere la frattura che permette di vedere dentro le cose, essere anatomia.
Il gioco: magnete da prendere con estrema serietà
Il gioco non è il contrario della realtà, per il bambino il gioco è la realtà. Posso giocare perché la mamma in cucina lavora, perché ci sono dei riferimenti con la realtà, però per un pudore fortissimo non posso essere visto nel momento del gioco. Il pudore di chi sta scoprendo qualcosa offre una condizione di forte fascino, è un momento in cui certe forze si rivelano: mi vedo e mi scopro per la prima volta. Mi colpisce moltissimo vedere nei gesti degli adulti, l'eco di ciò che facevano nell'infanzia: noi stiamo usando la forchetta perché con quella forchetta all'inizio ci abbiamo giocato, la ripetizione di un gesto prima è voluta, poi diventa abitudine. I gesti abitudinari rimandano ai nostri giochi dell'infanzia, come in una partitura musicale le note rivelano la musica, chi le sa leggere sente al là di quelle note l'intonazione, sa dove si trova. É questa la bellezza di uno sguardo che ha la possibilità di portare una luce dentro qualcosa che è sempre stato al buio. Sarebbe bello vedere tutto il mondo con il segno grafico della notazione musicale, oppure vedere il gioco che si nasconde nei nostri gesti, il gioco di quando siamo tutto in tutti. Nel corpo infantile la percezione non segue i cinque sensi in modo isolato, ma a a trecentosessanta gradi, in una fruizione unitaria e amalgamata del tutto. Questa è la forza di quel bellissimo monastero in Francia o Spagna, non ricordo, dove i monaci camminano nel cortile interno e le colonne sono costruite in base ad una ritmica salmodiante, in modo che solo grazie all'architettura si può sentire il suono del salmo. Si tratta di fare un'anatomia della realtà, quasi leonardesca, metterla in campo, tirala fuori, vedere lo spaccato, vedere la sezione, riuscire a piegare lo sguardo. Bisogna fare come le danzatrici del teatro delle origini che ballavano e stavano oblique perchè avevano un altro modo di percepire la realtà. È necessario spostare per un attimo l'asse di percezione, e questa operazione è proprio la peculiarità del gioco. Quando parlo di essere dentro a un unico corpo insieme ad altri, di sentirsi quell'unico corpo e contemporaneamente tutti gli altri, mi riferisco al Guaritore galattico di P. K. Dick. L'immagine finale dove tutti finiscono dentro a questo corpo è lo sguardo più dilatato di un corpo infantile. Il bambino riesce ad avere una percezione tattile dell'architettura, una percezione acustica dei vegetali, sente che la sedia che gli ha fatto male va rimproverata. Non è stato lui ad inciampare, ma la sedia lo ha colpito e quindi va ascoltata e poi, giustamente, va picchiata. La sensazione ha bisogno di nutrirsi di temperature diverse, c'è una logica in me di composizione infantile, anche del festival, per cui è necessaria la diversità dei lavori per costituire quell'unico corpo che tutti ci assorbe, come in Philip Dick,. Tutti lo sentiamo e sentiamo che il nostro asse è l'armonia musicale.
Mettere in scena un'opera: il festival di Santarcangelo
Quando entra in una caverna la bimba solleva lo sguardo e dice a suo padre: “Babbo guarda i tori dipinti”. Così si scopre l'arte preistorica, di cui non possiamo sapere niente perché non c'è niente di scritto e pure noi oggi possiamo dire tante cose su quell'arte, ma non c'era niente di scritto, non c'era un Vasari, non c'era nessuno che raccontava la vita di quell'arte. A furia di occhi di spettatore, che hanno guardato quelle pitture, siamo riusciti ad entrare in un'anatomia di quel disegno e a trovarne la storia. Abbiamo scoperto un orientamento di quei disegni e sappiamo che li concentravano tutti in un punto della caverna, tutti sovrapposti anche se avevano tanto spazio. La cosa più incredibile è che questo somiglia molto al processo infantile, nel quale si stabilisce un rapporto con la realtà nel momento del disegno: il bisonte reale, quello che è fuori, subisce l'effetto del mio disegno. Il processo artistico ha un'influenza sull'aspetto civile, sulla realtà. Dostoevskij diceva che ogni atto estetico crea una sorta di risonanza, io tutt'ora ho delle risposte di un atto di bellezza. È così, l'avevano già detto nell'antichità tante volte. Un atto di bellezza è già di per sé un gesto sociale, e di benessere. Stiamo bene, perché siamo fatti di cose che suscitano in noi un certo effetto. Perché le cose belle ci suscitano affetto, non un ragionamento, noi andiamo a vedere le grotte di Altamira, perché ci affascinano, vogliamo stare lì davanti, l'atto estetico è proprio come un innamorato con la sua innamorata, come un rapporto d'amore, e di conseguenza suscita affetto. Siete qui perché c'è qualcosa che vi ha affascinato, perché qualcosa vi produce affetto, di tutto ciò abbiamo urgente bisogno, come il cibo, il bere, come il bambino che ha bisogno del gioco. Avevamo bisogno di giocare, e quel gioco è rimasto nei gesti quotidiani della nostra vita. Questo festival ha aperto una porta, che adesso andrà richiusa. Proprio come un vento, come Eolo, che soffia e poi si placa. Il vento, che ha fatto suonare i primi strumenti musicali, queste lire eoliche sugli alberi.
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