Parziale delle ossessioni finora, a buon punto di un fine settimana sopraffatti da suoni, da fantasmi di suono, da muggiti, bottiglie e pianoforti, mosche e trombette e tuoni e fulminie cuscinetti di buio e silenzio: motivo dominante è il coro/ritornello che, a più riprese, nel corso della
Ode to the Man who Kneels di Richard Maxwell, emerge risolvendo la tensione del testo: “Endure, dear, endure, endure, endure!”. Curioso: una sequenza di cinque accordi che da sola riesce a delineare i contorni di un'epica popolare (ed è quell'accordo finale che innalza la melodia al rango di tema per un western immaginario) e che fornisce, nel frattempo, un messaggio di perseveranza; il minimo, per una musica che è rivestita di stereotipi, intrisa di umane passioni, zuppa di “lacrime di meraviglioso fuoco”. La prima canzone è la liberazione dopo il monologo estenuante che apre
Ode, e l'apertura verso una punteggiatura musicale che intercala a suon di sentimenti (come Roy Orbison in
Velluto Blu) un'azione centrata su passioni deleterie e inaspettate, terribili e strepitose crudeltà del calibro di “You should be strung up by your balls, I'll piss on you, you can suck the shit out of my ass when I can't shit. I shit on you. Fuck you you you piece of shit. I'm gonna kill you”. È utile, a compendio dello spettacolo rileggersi con più calma il testo, disponibile integralmente sul
sito dei New York City Players. Maxwell riprende il filo dello spettacolo, con la band ospitata al Centro Festival in chiusura della serata di sabato 4, complesso sgangherato che trasferisce (i personaggi e) gli interpreti della
Ode a rifare classici e meno classici del canzoniere country & western. Lo stordimento è triplo se si considerano, nell'ordine: il nome della compagnia e la sua collocazione iper-metropolitana a New York City, i differenti orizzonti che la loro
Ode contribuisce a definire (ma Maxwell ha radici nel North Dakota, nella città di West Fargo, sobborgo ulteriore della
Fargo che ci dicevano i fratelli Cohen; ancora altrove, insomma, e forse questo non è del tutto secondario), e il nome improbabile di questo progettino di musica country: Reena Spaulings Band, da una galleria d'arte di East Broadway. Saranno le radici miste e oscure di un popolo immerso nel precetto della violenza e del conflitto. Che, mentre si stempera, acquisisce significato: le canzoni danno respiro, e il divertimento del concerto diventa una finestra di liberazione a ruota del dj-set di Black Fanfare, con il quale condivide obiettivi e funzione: una terza via/diversivo ai percorsi molteplici e quasi mai concilianti di Santarcangelo 39, e ai chicchi sparsi di Immensa. Il concerto è accolto con tenerezza, partecipato sul finale con salti balli e grida fino alle avvisaglie di “la polizia dice che dobbiamo smettere”. Cioè il pane quotidiano del coprifuoco della musica dal vivo. Vedere i Players fuori dalla concentrazione della
Ode è come incontrare Alvin Lucier al bar Centrale di piazza Ganganelli, tipici occhiali grossi e calzini verdi, a dir chissà cosa al giovane cameriere accomodante; e, contemporaneamente è come metterli alla prova di un pubblico altro, e, almeno sul piano teorico, aprirli alla possibilità di un altro tipo di esperimento (una domanda, lontanamente in analogia: cosa accadrebbe se qualcuno decidesse di trasgredire la regola del buio del
Dilata interiòra di Filippo Tappi accendendo una luce, un fuoco? Cosa vedrebbe?). E ancora chissà che accadrebbe a un festival che prescrivesse ai propri ospiti di cimentarsi in pratiche distanti dal proprio allenamento: piano bar con Arnoldo Foà, Fanny & Alexander e Kato & Ito in quartetto, e altro ancora. Magari a tarda serata, quando i giudizi son sospesi...