LUOGHI > Masque Teatro - La macchina di Kafka
Lavoriamo con un software che produce suono, coinvolgendo diversi parametri legati alla ripresa video, che una figura può rompere e gestire perchè lei stessa è una portatrice di luce. Questo poteva essere il “luogo” da cui partire. Il produttore di suono è il sintetizzatore del computer, che ha possibilità infinite. Noi abbiamo scelto il suono del pianoforte, preservando l’idea di tastiera. Io non costruisco macchine, non mi interessa nemmeno esporle. A me interessa costruire un disegno, comporre delle sensazioni. E’ indubbio che nel nostro teatro ci sono spesso delle macchine, perchè mi servono per arrivare a un puzzle compositivo, un puzzle di senso. Per me la Celletta Zampeschi rimane uno spazio neutro, una stanza. Masque costruisce delle strutture che proteggono le sue figure. Qui ci sono solamente delle macchine, degli oggetti. E’ una cosa che io non faccio mai. Qui la partenza era mettere degli oggetti in una stanza. Poi immaginare il centro, questa arpa di pianoforte con i suoni che provengono da un sintetizzatore, sapendo che stavamo lavorando su La tana di Kafka e su altri racconti che utilizzano delle metafore sonore. Ecco allora, cosa c’è in questa tana? Forse dei residui, nel nostro caso dei residui di pianoforte, e anche macchine che producono suoni autogenerati, come i tintinnii delle bottiglie. Lorenzo Bazzocchi
Autogenerare è un concetto chiave per La macchina di Kakfa. La sensazione forte, quando si entra, è di varcare la soglia di una conchiglia, che si apre a un suono inudibile fuori. Quale è l’origine del suono, sia uditiva che di “pensiero”? Inevitabile suddividere il pezzo in due parti forse complementari: assistiamo dapprima a una lotta, a un combattimento fra una figura isolata nello spazio e radicata su uno strumento rovesciato. Chi produce queste cascate di note? E’ lei a innescarle, lo intuiamo, ma ci chiediamo anche quanto siano loro a direzionare i suoi movimenti. La figura poi si ferma, e al suo posto a muoversi sono i “residui”. E’ allora l’intorno che si mette in vita, ma è una vita fatta solo di parti meccaniche, che hanno imparato a fare a meno dell’uomo. Questa Celletta è dunque una conchiglia, dove il suono autogenerato sembra poter fare a meno di quanto accade fuori, pur conservandone reminescenze. E’ una lotta, se vogliamo fra il dentro e il fuori, fra il digitale e il meccanico, fra il martelleto di un piano e il dito di una mano. Stare in questo luogo protetto, per prima cosa, e poi combattere, non rinunciare del tutto a uscire o fuggire, e ascoltare un’azione e la sua risonanza.
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