BIOGRAFIE > Interno Libano. Rabin Mroue' e Lina Saneh
In occasione della presenza a Santarcangelo 40 degli artisti libanesi Rabih Mroué e Lina Saneh, abbiamo intervistato gli autori di Photo-romance indagando ulteriormente la domanda sull'identità del nostro prossimo. Per tracciare i confini fra teatro arabo e occidentale e le aperture che esistono tra i due mondi, abbiamo raccolto il contributo di Tahar Lamri, scrittore e giornalista algerino.
Rabih Mroué è attore, regista e scrittore libanese, nato a Beirut nel 1967, come Lina Saneh, sua compagna d'arte e di vita. Dopo gli studi hanno lavorato entrambi come interpreti per diversi registi, fino al 1990, anno in cui Mroué dirige L'abat-jour, adattamento da un testo di Eugène Ionesco. Nei lavori successivi il duo ha sperimentato nuove e possibili relazioni tra le arti visive contemporanee e il teatro tradizionale. Dal 1996 la coppia ha coinvolto altri artisti, tra i quali vari professionisti esterni al campo del teatro, per avere nuovi stimoli e dar forma alla propria riflessione artistico-politica. In parallelo, la coppia ha proseguito individualmente le proprie ricerche: Saneh si è interessata in particolare alle contraddizioni sociali e politiche del Libano e agli effetti che i suoi conflitti producono sul corpo umano e civile, indagando il singolo in rapporto allo spazio pubblico. Mroué, invece, ha dato una cifra più radicale alla sua drammaturgia e regia inserendo i supporti video come vera e propria presenza scenica che convive con il corpo dell'attore. Occuparsi del Libano e della sua storia, ricorrendo a documenti d'archivio, non si è mai tradotto per Mroué in ideologia o sterile denuncia, ma sempre in una forma artistica contaminata e ricca che sconfina nell'arte contemporanea.
Che cosa ha rappresentato la svolta del 1996 per il vostro lavoro artistico?
M In quel momento abbiamo rimesso in discussione tutta la nostra esperienza teatrale intrapresa fino ad allora, i nostri studi e la nostra idea di rappresentazione, spingendo il lavoro verso differenti campi artistici. Per esempio, una mia grande passione è la musica, ma rientra anch'essa nel teatro, uno spazio che nel nostro percorso è aperto a molte discipline. Negli anni abbiamo lavorato con architetti, scrittori, fotografi e musicisti, professionisti privi in molti casi di preconcetti a proposito delle arti sceniche, liberi da stereotipi e anche da regole. Questo percorso è stato ricco, mi ha dato molto.
In Photo-romance due sconosciuti si incontrano in un appartamento di Beirut mentre in piazza si stanno svolgendo due manifestazioni: sono un ex militante di sinistra e una casalinga. Il rapporto tra piazza e casa, tra pubblico e privato, tra Storia e storia, è evidente. Ma mettete in relazione due momenti storici: il periodo fascista italiano del film di Scola, a cui lo spettacolo è ispirato, e il presente libanese. Sono queste le dicotomie che hanno guidato la vostra drammaturgia?
S Lo spazio pubblico per me non è solo il fuori, ma è un concetto filosofico e politico: è il luogo del dibattito, dove si possono incontrare vari tipi di gruppi e di comunità. In Libano lo spazio pubblico è occupato da una serie di forze derivanti da diversi poli di potere in lotta tra loro: c'è quello politico dello Stato, quello delle confessioni religiose e infine quello individuale. In Photo-romance assistiamo a uno straniamento perché i due personaggi si incontrano in un'abitazione privata, parlano tra loro e così si mettono realmente in discussione. Si crea una sorta di crepa nel muro della quotidianità e delle convenzioni, perché è in casa che emerge una vera dialettica, mentre nei luoghi pubblici - come la piazza - il più delle volte domina il conformismo. In questo senso, dunque, lo spazio privato è l'unico "apolitico".
M In Libano si può dire che viga una società fascista e confessionale. I personaggi di Photo-romance appartengono a gruppi sociali definiti: l'intellettuale borghese e la casalinga proletaria. I due si mettono in discussione attraverso l'incontro. Così facendo, in realtà, capovolgono il processo comune di allontanare gli altri da sé, oltre il pensiero unico della massa.
Una delle domande sottese a questo festival è "chi è il mio prossimo". Nel vostro percorso artistico si avverte una fortissima urgenza etica che vi porta a unire impegno e arte con una cifra di originalità. Come descrivereste la vostra condizione di artisti libanesi oggi?
M Credo si tratti della prima questione importante oggi in Libano. È una faccenda identitaria, innanzitutto, che ci invita a chiederci chi siamo "noi" rispetto agli "altri" e chi sono gli altri rispetto a noi. In Libano siamo stranieri l'un l'altro, non a caso la guerra civile viene chiamata "la guerra degli altri", una guerra che tentiamo continuamente di dimenticare, senza farci mai i conti. Del resto si tratta di una domanda che attanaglia l'arte in generale, non credo solo la politica.
Il vostro è un teatro di parola che si allontana dalla retorica del teatro civile che siamo soliti vedere in Italia. Voi come lo definireste?
M Più che di parola, è un teatro fisico che unisce video e immagini. È un teatro costruito su vari livelli, per esempio può esistere un piano musicale che va a interferire con la drammaturgia scritta. Credo che la contaminazione sia anche tra il testo e le domande che ci poniamo sulla nostra identità e sulla nostra storia.
S Il piccolo e il grande nel nostro lavoro collimano. Il teatro per noi è uno spazio di discussione e dibattito che connette la produzione artistica e il senso critico. La sfida principale è domandarsi come si possa cambiare noi stessi e allo stesso tempo cambiare ciò che è fuori di noi. Si dice spesso "il teatro è morto", eppure la nostra ricerca, così in ascolto delle altre discipline, punta a dare nuovo ossigeno in questo ambito e a provocare gli individui cominciando da noi stessi. Inoltre non siamo chiusi in una compagnia, ma ci troviamo a lavorare in gruppi di persone che condividono uno sguardo critico.
In Make me stop smoking c'è una raccolta di vari oggetti della memoria, tra cui anche manifesti di propaganda politica e giornali. Recuperare questi materiali, per poi demistificare il loro messaggio ideologico, serve per riappropriarsi di una Storia negata?
M Make me stop smoking è un lavoro sull'oblio, per questo motivo la memoria collettiva si fonda su archivi eterogenei che si compongono gradualmente durante la visione. Si tratta però di un pre-testo, una memoria inventata. Il tema politico non è secondario: in Libano viviamo in un clima di continua riscrittura della storia. C'è una sorta di apologia della guerra civile perché le posizioni di potere sono le stesse di allora: i rapporti di forza non sono cambiati e negli anni i conflitti sono gli stessi.
a cura di Martina Melandri (Laboratorio per uno spettatore critico, Santarcangelo 40) e di Nicola Villa
Tahar Lamri*
Sull'attore nel teatro arabo
La parola attore, in arabo mumathil, viene dalla radice mathala che significa "mutilare". L'attore rappresenta quindi una realtà mutilata, diversamente dal narratore che la racconta. Il mumathil è come l'"ipocrita", parola che in antica Grecia indicava l'attore, colui che recitava con la maschera. Se in italiano "maschera" si ricollega al concetto di "persona", mentre attore è colui che agisce (secondo Carmelo Bene anche colui che è agìto), in arabo invece "persona" è "la persona che vedo", e che mi vede attraverso il mio vedere. Cioè l'altro da me, grossolanamente. La tradizione araba è più spostata sul racconto, piuttosto che sulla figurazione. Per questo gli arabi hanno avuto sempre difficoltà nel rendere il concetto di rappresentazione: lo stesso Averroè, commentando la Poetica di Aristotele, si è arrestato di fronte alle parole tragedia e commedia, e non trovando un significato le ha lasciate in greco. Come se non le avesse capite, anche se forse qualche esempio l'aveva avuto, dal momento che erano tantissimi i teatri greci nella riva sud del Mediterraneo. Resta il fatto che gli arabi non hanno mai sviluppato quello che chiamiamo teatro, così legato al concetto di rappresentazione. Soltanto gli Sciiti in Libano e in Iran hanno dato forma a una rappresentazione della passione, come quella medievale in Europa, chiamata Tazie.
* Scrittore, giornalista algerino e collaboratore del settimanale "Internazionale"
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