Abbiamo chiesto alla direzione di Santarcangelo 40, Enrico Casagrande, Rodolfo Sacchettini e Daniela Nicolo' di esplicitare le tensioni contenute in "passione" e "insostenibilità": due parole che scorrono sotto la pelle di questa edizione e la connettono alla visione più ampia del progetto triennale del Festival.
Passione e utopia
Enrico Casagrande: Un festival come questo, che è anche un pensiero, uno stare insieme, non può esistere senza passione. Credo che sia la possibilità di non vedere dei limiti, di attraversare il territorio dell'impossibile. Senza passione non potremmo fare l'impossibile che cerchiamo. La nostra è una passione per l'utopia, anche oggi. In un momento in cui vediamo nero e siamo accerchiati dalla negatività, questa riesce in qualche modo a pervadere il nostro agire, a giustificare il nostro fare di meno. La negatività spesso diventa una scusa a cui ricorrere. Come Motus abbiamo sempre attraversato i festival da artisti: costruirlo è stato, per noi, allargare l'idea di compagnia, fino alla sorpresa di avere di fronte cento persone con uno stesso tipo di sentimento, di orizzontalità. Arriveremo a comporre questo festival in settecentonovanta: una piccola città, un borgo, tante teste pensanti che si radunano attorno a Santarcangelo. La volontà è di trascinare il festival, la collettività e gli individui in una dimensione di impossibile; ci siamo presi un rischio: perdere il controllo. Alcuni progetti saranno delle sorprese anche per noi.
Daniela Nicolò: La cosa che più m'incuriosisce e su cui ho maggiore attesa sono le reti sotterranee che si andranno a creare tra i vari momenti spettacolari e non: un livello profondo che si manifesterà solo nel vivo del festival.
Rodolfo Sacchettini: È come se ci fossimo chiesti cosa era possibile mettere in bilico con il "potere". Il potere è anche abitudine, consuetudine, chiusura, stupidità, i luoghi comuni, gli stereotipi, l'affaticamento e la noia. La reazione è stata lavorare alla costruzione di un contesto, mossi principalmente da passione e necessità. C'è anche della lotta in tutto questo, e ci vuole un po' di utopia per andare avanti; poche illusioni, tanta ostinazione. Abbiamo lavorato sulle passioni singolari e plurali, lavorando per "fare comunità", guardando agli individui e ai gruppi, senza un "Dio", intorno al quale ruotare. Questo festival vive della moltiplicazione e del vedere nelle cose che accadono il generarsi di possibilità, la ricchezza delle strade che possono essere percorse. Ed è la bellezza il più delle volte a scardinare porte e aprire sentieri là dove tutto sembrava chiuso o impercorribile.
Fine
EC: Chi è arrivato dopo la generazione-anni-novanta ha ricominciato da capo: è avvenuto un azzeramento che voleva dire nuovo linguaggio, nuovo rapporto con le istituzioni, nuovo modo di fare teatro. Per noi Motus non è stato così. Ma se avessimo tagliato con ciò che c'era prima, se ci fossimo separati da tutto il resto, avremmo perso i fili. Anche le contraddizioni sono estremamente importanti per una continuità. Non dico che l'oggi e il domani debbano essere uguali al passato; ma il passaggio deve essere un ripartire da dove si è, anche se la stratificazione è satura o marcia. Non credo nell'azzeramento, nel volere per forza chiudere, e solo dopo capire cosa sta succedendo.
DN: Queste considerazioni riecheggiano in alcuni spettacoli presenti al festival. La reazione al nero è stata il rosso, una scelta molto evidente, una risposta nettissima legata alla nostra attuale condizione di artisti. Nel nostro percorso abbiamo spesso deciso di aprire ad altre forme, cambiare linguaggio, andare per altre strade, ma assolutamente esserci. L'idea di reazione è basilare, altrimenti si fa il gioco del potere. Come chi, in questo momento, per il fatto che non ci sono soldi, sceglie di non fare o fare di meno.
EC: Siamo solo all'inizio di un regime che taglierà per prime le frange pensanti. Allora dovremmo reinventarci come i polacchi, costretti a portare il teatro nelle chiese, gli unici luoghi dove i russi non potevano fermarli...
Esplosione non implosione
EC: È importante evitare il dibattito tout-court come è avvenuto negli anni ‘70, quando si è perso di vista l'oggetto "arte" in favore di quello meramente politico, altrimenti si va incontro al pericolo di un'implosione, di un'involuzione del linguaggio stesso delle arti. Un'utopia sta anche nel fatto che il Bello, il metaforico e il-continuamente-trasformato debbano a proseguire a essere riferimenti e punti di vista per mettersi in relazione alla realtà.
DN: In questo festival c'è stata l'urgenza di coinvolgere artisti che si rapportassero al reale senza farne una traduzione diretta, narrativa. Su questi abbiamo investito, prendendoci il lusso di qualche rischio.
Singolare e plurale
EC: Credo che la direzione del festival da parte di gruppi teatrali abbia permesso in qualche modo di sbloccare la verticalità: l'organizzazione gerarchica difficilmente avrebbe permesso che si mescolassero le carte, invece per noi questo è accaduto in modo naturale fin dal 2009.
RS: In questo lavoro di tante teste c'è la consapevolezza che uno più uno non fa due, ma un altro numero, che può essere tre o ancora di più. Quando in un'equipe nascono competizione, conflitto o invidia, è la pluralità a rimetterci. Noi abbiamo ricercato equilibri in continuo divenire, sempre diversi, ma tra individui che guardassero a un pensiero collettivo.
«Che cosa significa? Dare, non dare l'anima. / Puoi forse darla o non darla? Sei forse tu a dare l'anima? / Sei forse tu il padrone e lei un cane, tu il proprietario e lei - un oggetto? / È lei che ti dà, che ti consegna (...), non il contrario». Marina Cvetaeva, Deserti luoghi
Chiara Guidi
Le due parole chiave che mi sottoponete sono strettamente legate: la passione è in quanto tale insostenibile, perché è paradossale nella sua stessa natura, che consuma e insieme alimenta. Di quale passione stiamo parlando? Del termine passione abusano da decenni venditori di profumi e politici in carriera. Se non rimettiamo la parola con i piedi per terra, se non la inchiodiamo al suo etimo di "patimento", non ne usciamo fuori. Patimento amoroso, ovvio: per un'altra creatura, per un'opera da realizzare, per una comunità da costruire. La sua insostenibilità è nell'essere in relazione al mistero dell'altro, del bruciare per questo altro. È in quel fuoco che andrò avanti nella conoscenza, di me, dell'altro, del mondo. La sua insostenibilità è quindi nell'essere, in quanto tale, aliena da ogni progetto di potere e di dominio. Non è questione, credo, di essere "smisurati" o "misurati" a priori: è il patire "con" e "per" che mi darà la misura e la dismisura necessarie, che mi chiederà ora di fare un volo dall'ultimo piano di un condominio ora di starmene quieta in un angolo a misurare la terra. Immaginare l'irrealizzabile, di per sé, è pensiero astratto, slogan pubblicitario al peggio, se non lo si àncora.
Ermanna Montanari