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INCONTRI: NERO SU BIANCO LIVE > "Passione e insostenibilita'": MOTUS e Rodolfo Sacchettini Silvia Bottiroli e Cristina Ventrucci Chiara Guidi Ermanna Montanari

Abbiamo chiesto alla direzione di Santarcangelo 40, Enrico Casagrande, Rodolfo Sacchettini e Daniela Nicolo' di esplicitare le tensioni contenute in "passione" e "insostenibilità": due parole che scorrono sotto la pelle di questa edizione e la connettono alla visione più ampia del progetto triennale del Festival.


Passione e utopia


Enrico Casagrande: Un festival come questo, che è anche un pensiero, uno stare insieme, non può esistere senza passione. Credo che sia la possibilità di non vedere dei limiti, di attraversare il territorio dell'impossibile. Senza passione non potremmo fare l'impossibile che cerchiamo. La nostra è una passione per l'utopia, anche oggi. In un momento in cui vediamo nero e siamo accerchiati dalla negatività, questa riesce in qualche modo a pervadere il nostro agire, a giustificare il nostro fare di meno. La negatività spesso diventa una scusa a cui ricorrere. Come Motus abbiamo sempre attraversato i festival da artisti: costruirlo è stato, per noi, allargare l'idea di compagnia, fino alla sorpresa di avere di fronte cento persone con uno stesso tipo di sentimento, di orizzontalità. Arriveremo a comporre questo festival in settecentonovanta: una piccola città, un borgo, tante teste pensanti che si radunano attorno a Santarcangelo. La volontà è di trascinare il festival, la collettività e gli individui in una dimensione di impossibile; ci siamo presi un rischio: perdere il controllo. Alcuni progetti saranno delle sorprese anche per noi.

 

Daniela Nicolò: La cosa che più m'incuriosisce e su cui ho maggiore attesa sono le reti sotterranee che si andranno a creare tra i vari momenti spettacolari e non: un livello profondo che si manifesterà solo nel vivo del festival.

 

Rodolfo Sacchettini: È come se ci fossimo chiesti cosa era possibile mettere in bilico con il "potere". Il potere è anche abitudine, consuetudine, chiusura, stupidità, i luoghi comuni, gli stereotipi, l'affaticamento e la noia. La reazione è stata lavorare alla costruzione di un contesto, mossi principalmente da passione e necessità. C'è anche della lotta in tutto questo, e ci vuole un po' di utopia per andare avanti; poche illusioni, tanta ostinazione. Abbiamo lavorato sulle passioni singolari e plurali, lavorando per "fare comunità", guardando agli individui e ai gruppi, senza un "Dio", intorno al quale ruotare. Questo festival vive della moltiplicazione e del vedere nelle cose che accadono il generarsi di possibilità, la ricchezza delle strade che possono essere percorse. Ed è la bellezza il più delle volte a scardinare porte e aprire sentieri là dove tutto sembrava chiuso o impercorribile.

 

Fine


EC: Chi è arrivato dopo la generazione-anni-novanta ha ricominciato da capo: è avvenuto un azzeramento che voleva dire nuovo linguaggio, nuovo rapporto con le istituzioni, nuovo modo di fare teatro. Per noi Motus non è stato così. Ma se avessimo tagliato con ciò che c'era prima, se ci fossimo separati da tutto il resto, avremmo perso i fili. Anche le contraddizioni sono estremamente importanti per una continuità. Non dico che l'oggi e il domani debbano essere uguali al passato; ma il passaggio deve essere un ripartire da dove si è, anche se la stratificazione è satura o marcia. Non credo nell'azzeramento, nel volere per forza chiudere, e solo dopo capire cosa sta succedendo.

 

DN: Queste considerazioni riecheggiano in alcuni spettacoli presenti al festival. La reazione al nero è stata il rosso, una scelta molto evidente, una risposta nettissima legata alla nostra attuale condizione di artisti. Nel nostro percorso abbiamo spesso deciso di aprire ad altre forme, cambiare linguaggio, andare per altre strade, ma assolutamente esserci. L'idea di reazione è basilare, altrimenti si fa il gioco del potere. Come chi, in questo momento, per il fatto che non ci sono soldi, sceglie di non fare o fare di meno.

 

EC: Siamo solo all'inizio di un regime che taglierà per prime le frange pensanti. Allora dovremmo reinventarci come i polacchi, costretti a portare il teatro nelle chiese, gli unici luoghi dove i russi non potevano fermarli...

 

Esplosione non implosione

EC: È importante evitare il dibattito tout-court come è avvenuto negli anni ‘70, quando si è perso di vista l'oggetto "arte" in favore di quello meramente politico, altrimenti si va incontro al pericolo di un'implosione, di un'involuzione del linguaggio stesso delle arti. Un'utopia sta anche nel fatto che il Bello, il metaforico e il-continuamente-trasformato debbano a proseguire a essere riferimenti e punti di vista per mettersi in relazione alla realtà.

 

DN: In questo festival c'è stata l'urgenza di coinvolgere artisti che si rapportassero al reale senza farne una traduzione diretta, narrativa. Su questi abbiamo investito, prendendoci il lusso di qualche rischio.

 

EC: Questa pratica, eversiva rispetto a una consuetudine da festival, è stata per noi come innescare una bomba. La delusione sarebbe se di questa potenziale esplosione rimanesse solo l'innesco, con la possibilità che durante il festival noi continuassimo a chiederci "quando esplode veramente?".
Abbiamo scelto di non riempire incondizionatamente le piazze, di non cercare il consenso. La nostra costruzione di ESC è proiettata a sovvertire le regole dell'apparire, non sarà invasiva a livello di moltiplicazione, ma lo sarà a livello di tensioni. Se accade veramente lo vediamo poi. Io non ho paura di questo, anzi, ho paura che tutto questo non accada, che alla fine saremo così civili tra di noi e così ben educati, che le intenzioni rimangano frasi scritte invece di accadere in modo dirompente. Non dimentichiamo che l'Italia è l'unica nazione europea che non ha mai avuto una rivoluzione: non l'abbiamo nel DNA. Non vorrei che ci ritrovassimo l'ultimo giorno di festival a attendere ancora una scossa che ci attraversi. Io ne ho bisogno. Altrimenti mi sentirei molto scarico, per quanto gli spettacoli possano essere belli.

 

Singolare e plurale

EC: Credo che la direzione del festival da parte di gruppi teatrali abbia permesso in qualche modo di sbloccare la verticalità: l'organizzazione gerarchica difficilmente avrebbe permesso che si mescolassero le carte, invece per noi questo è accaduto in modo naturale fin dal 2009.

 

RS: In questo lavoro di tante teste c'è la consapevolezza che uno più uno non fa due, ma un altro numero, che può essere tre o ancora di più. Quando in un'equipe nascono competizione, conflitto o invidia, è la pluralità a rimetterci. Noi abbiamo ricercato equilibri in continuo divenire, sempre diversi, ma tra individui che guardassero a un pensiero collettivo.

 


#02
Cristina Ventrucci e Silvia Bottiroli, insieme a Rodolfo Sacchettini, fanno parte del coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 2009-2011. Ci hanno parlato del loro lavoro, che necessita di uno spirito fuori misura, come fuori misura è l'avventura triennale in cui l'edizione 40 si inserisce.

«Che cosa significa? Dare, non dare l'anima. / Puoi forse darla o non darla? Sei forse tu a dare l'anima? / Sei forse tu il padrone e lei un cane, tu il proprietario e lei - un oggetto? / È lei che ti dà, che ti consegna (...), non il contrario». Marina Cvetaeva, Deserti luoghi

La passione è lo slancio gioioso, il senso di corsa felice, essere fedeli alla propria misura e non a quella del tempo. Ma passione significa anche patire, rapportarsi con i tanti nodi che si incontrano nel percorso: i rapporti con le istituzioni, con le economie, con la costruzione di un'idea. Quando qualcosa nasce, c'è del sangue in mezzo, inevitabilmente. 
Una questione determinante è il fatto che il festival abbia luogo in un piccolo paese. Si ha l'impressione, a tratti ingannevole, di poter veramente lasciare un segno, di cambiare qualcosa. Ma l'immaginazione di un festival si intesse con il filo della concretezza. Bisogna fare quello che si dice, è necessario che ci sia un legame stretto tra pensieri, parole e azioni. Questa è la chiave di volta nel rapporto tra individuo e comunità, un ingrediente fondamentale dello spazio-tempo del festival e del paese. Per Santarcangelo tre artisti si sono uniti in un unico progetto triennale, in continua evoluzione, in cui le impronte delle singole direzioni sono fortissime. 
Il punto di forza è la continuità. Se dovessimo individuare un comune denominatore dei primi due festival del progetto, molto diversi tra loro, sarebbe lo scavo per arrivare all'origine di un atto creativo. Non si tratta di una domanda tematica, perché il tema fondamentale di oggi è la politica, bensì una domanda di senso più ampia, che abbraccia il teatro, la collettività e l'individuo e informa in modo profondo il senso del festival.


#03
Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, direttrice artistica del festival nel 2009, e Ermanna Montanari del Teatro delle Albe, a cui passerà il testimone nel 2011, hanno ragionato con noi sulle parole chiave di questa edizione del festival.

 

Le parole sganciate da una situazione pratica possono diventare pericolose. Il rischio è che si trasformino in un mondo che diventa necessario scavare per capirne il significato. 
Vorrei togliere ogni tipo di prosopopea intorno alla parola "passione". Credo che sia molto facile, in questo momento, mutare le cose attraverso parole che diventano slogan e vengono da noi - proprio da noi che peraltro ci crediamo - svuotate di senso. Fino a prendere delle derive che noi stessi confondiamo con la direzione giusta. 
Pensando al festival, alla passione associo il lavoro pratico, tra cui anche quello critico, che tante persone prestano gratuitamente. Questa passione che sembrerebbe non lasciare un segno evidente è invece necessaria perché comincia a stratificare uno spazio. Un luogo che sta diventando sempre più inascoltato, soprattutto nell'ambito di una politica che elimina con i tagli alla cultura i festival piccoli per affidarsi ancora una volta alle grandi strutture dei cartelloni teatrali.
La passione che vedo in Santarcangelo è legata alle persone, che difendono lo spazio di esistenza del festival, pur non essendo il loro lavoro quotidiano: lo difendono per chi verrà, investendo una porzione di tempo e di vita perché lo ritengono una risposta politica a un pensiero dominante. La loro presenza ha creato l'aria di Santarcangelo 39, la possibilità concreta di realizzarlo e in qualche modo pone i fondamenti di un pensiero estetico, perché si dirami. 
Credo che queste persone siano le uniche che possano parlare di passione.

 

Chiara Guidi

Le due parole chiave che mi sottoponete sono strettamente legate: la passione è in quanto tale insostenibile, perché è paradossale nella sua stessa natura, che consuma e insieme alimenta. Di quale passione stiamo parlando? Del termine passione abusano da decenni venditori di profumi e politici in carriera. Se non rimettiamo la parola con i piedi per terra, se non la inchiodiamo al suo etimo di "patimento", non ne usciamo fuori. Patimento amoroso, ovvio: per un'altra creatura, per un'opera da realizzare, per una comunità da costruire. La sua insostenibilità è nell'essere in relazione al mistero dell'altro, del bruciare per questo altro. È in quel fuoco che andrò avanti nella conoscenza, di me, dell'altro, del mondo. La sua insostenibilità è quindi nell'essere, in quanto tale, aliena da ogni progetto di potere e di dominio. Non è questione, credo, di essere "smisurati" o "misurati" a priori: è il patire "con" e "per" che mi darà la misura e la dismisura necessarie, che mi chiederà ora di fare un volo dall'ultimo piano di un condominio ora di starmene quieta in un angolo a misurare la terra. Immaginare l'irrealizzabile, di per sé, è pensiero astratto, slogan pubblicitario al peggio, se non lo si àncora.

Ermanna Montanari

         

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