Siamo alla fine di un trentennio terrificante e stiamo assistendo a una trasformazione della quale non possiamo prevedere gli effetti. La crisi del 2008 non è transitoria: è la fine di un modello economico, quello affermatosi alla fine degli anni Settanta e nei primissimi Ottanta e di cui la prima conseguenza è stata la caduta dei muri, la fine dell'impero sovietico e la nascita del modello della finanziarizzazione dell'economia, dell'arricchimento facile e della prevalenza assoluta del libero mercato. La trasformazione di tutti in consumatori. La cultura si è affermata come riempitivo, per non affrontare i problemi e viverli sempre in forma accessoria, per ignorare le proprie richieste e insoddisfazioni, fino a non comprenderle più. Quello che resta dopo il disastro è poco e trovare punti di riferimento positivi sarà difficile.
Cosa accadrà adesso che la società dello spettacolo è in crisi? In questa società consumare spettacolo e consumare cultura è diventata una nuova forma di oppio del popolo. Consumo e consenso sono le due facce del potere.
Adorno nei Minima Moralia scriveva che la piccola borghesia si crede depositaria dell'umano: ormai tutto è "piccola borghesia", è il genere dominante. Oggi il ciclo è chiuso e si autoalimenta: chi produce un'opera la stampa, la diffonde, la consuma, è sempre la stessa persona.
La comunicazione è diventata tutto. Guardiamo all'università. La cosa più abominevole di questo trentennio è la riforma universitaria che ha visto al suo centro la nascita delle scienze della formazione e della comunicazione. "Formazione" vuol dire dare forma, come l'argilla che viene messa dentro una fornace ed escono fuori i mattoni. Dalla formazione viene fuori una cultura di robot che danno vita ad altri robot, con una forma ben precisa, per questo la parola formazione mi fa schifo.
Che fare, allora? L'eterno problema. La storia è fatta da epoche di "febbre" - io le chiamo così - che si alternano a epoche di quiete. Abbiamo vissuto un periodo di stasi lunghissimo che sta per finire. Oggi, io credo, la riconquista di un discorso minoritario intelligente è l'unica strada possibile. L'arte non è comunicazione: ha avuto sempre una funzione di profondità, di messa in discussione dei temi fondamentali dell'inquietudine umana.
Le arti hanno il dovere di porre delle domande e di suscitare inquietudini. Credo che l'unica formula utile per l'artista sia quella che Gesù dice ai suoi discepoli: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti». Carmelo Bene, per fare un esempio, era certamente così, non era cinico come sembrava: l'arte che perseguiva era l'Arte con la A maiuscola. Voleva essere un sacerdote dell'arte, ma si sapeva far pagare. L'artista è una figura "inutile" e parassitaria per definizione: produce oggetti culturali che sono nell'aria, entrano nelle menti, non sono monetizzabili. Dobbiamo distinguere chiaramente quello che è comunicazione da quello che è arte. La comunicazione serve solo a riempire le pagine culturali di giornali come "Repubblica".
Nel ciarpame della società dello spettacolo milioni di giovani a cui non viene dato lavoro vengono parcheggiati nel campo artistico: li si spinge a recitare, a cantare, ballare o a scrivere per riempire il tempo, ma poi, raggiunta una certa età, si dice loro: ora basta, siete adulti, cavatevela da soli. Ovviamente non tutti possono essere artisti. Una delle tragedie del nostro tempo è non capire quali sono i propri talenti. Ognuno deve capire qual è il proprio piccolo frutto e accontentarsi di chiedere il massimo da quello.
Il vero problema per gli artisti è quello del confronto con il loro piccolo mercato, perché un artista senza spettatori soffre molto. Ma oggi il pubblico non può che essere un pubblico piccolo e che ci somiglia. L'arte deve intrecciarsi con l'educazione - non nel senso di dare le soluzioni, ma aiutare a porre le domande. Oggi il pubblico è rincoglionito da trent'anni di Berlusconi, Maria de Filippi, Veltroni, D'Alema, Bertinotti, di Rulli e Petraglia, di Ozpetek, delle sorelle Comencini. Siamo tutti rimbambiti, anestetizzati. In questi trent'anni ci hanno tolto la capacità di reagire: siamo stati addormentati dal benessere. Che ci sia stata della gente che ha resistito è un miracolo. Prima o poi bisognerà chiedere il conto a tutti quelli che si sono piegati a questo sistema, che hanno collaborato a castrare i giovani, a toglier loro la capacità di pensare, di inventare, di indignarsi, e soprattutto di reagire. Credo che il compito delle avanguardie sia un po' questo: avvistare la novità assoluta, l'apocalisse, che può però essere positiva o negativa. L'artista dev'essere colui che vede prima. Il compito del critico è quello di stargli dietro, in un dialogo costante.
L'artista deve cercarsi il proprio pubblico. L'arte di arrangiarsi è oggi fondamentale per gli artisti, che devono essere imprenditori e persino imbonitori di se stessi. I soli film belli che circolano oggi sono stati fatti così. Gus Van Sant, i Cohen, Andrzej Wajda, i Dardenne, per esempio, girano il mondo con un progetto, presentandolo alle televisioni, a istituti e fondazioni varie, a distributori, e alla fine costruiscono il cosiddetto "pacchetto", cioè trovano i soldi per produrre il film esattamente come vogliono loro. Sono film estremamente autonomi e individuali. Per quanto riguarda la distribuzione, poi, il discorso è ancora più difficile. Occorre inventarsi il proprio pubblico, quello che può essere davvero interessato al tuo discorso. Ovviamente, sarà un pubblico non vastissimo. Oggi non è possibile parlare alle masse. Bisogna ripartire dalla dimensione del gruppo, che è l'unica dove si può innescare una forza critica, avere delle discussioni interne anche feroci. Le discussioni sono salutari: se tutti sono d'accordo con te, sei finito.
Chi è il mio prossimo? Non credo esattamente nei maestri. Credo che non ce ne debba essere solo uno ma che ce ne siano tanti. Più che di maestri, preferisco parlare di fratelli maggiori. Il mio prossimo, allora, sono i fratelli minori. I fratelli minori sono quelli che vanno aiutati nel tirar fuori le loro potenzialità, la loro bellezza, e possono essere quindi i bambini, gli immigrati, e vanno considerati appunto come fratelli, non come allievi, o - secondo il concetto cattolico - i destinatari della carità. Per quello c'è il welfare. Noi dobbiamo individuare i fratelli minori che ci interessa di più aiutare e lavorare con loro e per loro. Oggi i bambini crescono senza sapere più quali sono i loro limiti, così quando diventano grandi e scoprono che la società è orrenda diventano isterici, dei grandi depressi, dei grandi ladri o dei robot che inseguono il corso delle masse.
Camus diceva che non bisogna mai disprezzare le masse, perché anche noi ne facciamo parte. Non bisogna mai pensare se stessi come dei superuomini. Semplicemente bisogna capire quello che è possibile fare e dare il proprio contributo al cambiamento. Camus diceva: "Mi rivolto, dunque siamo". La rivolta nasce sempre individualmente, per ingiustizia subita o vista subire da altri, ma ha senso solo se è fatta per tutti e nel nome di tutti. Nonostante le mie pratiche si svolgano in un ambito minoritario, la mia preoccupazione principale sono le masse. Si ha il dovere dell'ottimismo. Come diceva Gramsci, occorre praticare il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà.