Musica, autoproduzione, desertificazione. Abbiamo chiesto a due addetti ai lavori "veri", per ragioni diverse di passaggio al festival, un'opinione sulla fine e sui fini di pop, rock e altre musiche contemporanee: Stefano Isidoro Bianchi, direttore della rivista "Blow Up", che proprio questa domenica a Santarcangelo riceverà il premio "Lo straniero", e John Vignola, firma del "Mucchio selvaggio" e voce di RadioRai.
Cortona, giugno 2010: Stefano Isidoro Bianchi
Senza filtri
Autoproduzione e internet hanno completamente cambiato il mondo della musica. Il binomio ha generato i fenomeni della sovrapproduzione, della crisi delle vendite dei dischi, del download. Il salmo che accompagna i discorsi a favore del download è lungo e pieno di apparenti buone giustificazioni. Il risultato è però incontestabile: escono una marea di dischi, se ne vendono pochissimi, e le etichette nascono per morire nell'arco di una stagione. La questione non è demonizzare il download. È analizzare con onestà quello che accade: mascherarsi dietro presunte battaglie libertarie per cui la rete, il download e l'autoproduzione ci hanno salvato dalle major e dai prodotti dell'industria musicale, è disonesto e non vero. Non è un riduttivo dare la colpa a chi scarica dischi. È un preoccupato interesse di fronte al silenzio che ha riguardato l'argomento. Perché quello che però ne è scaturito, e ne scaturisce, ha delle conseguenze impressionanti. Se da un lato distributori ed etichette non riescono a sopravvivere e chiudono, dall'altro l'abbassamento progressivo del costo della produzione dei dischi ha permesso a chiunque di autoprodursi un cd. Chiunque li fa, li invia alle etichette rimaste e alle riviste, o si fa la propria etichetta. La qualità della musica si è così abbassata, e di molto; perché non ci sono più filtri, di nessun tipo, come quello dell'etichetta, con i suoi responsabili che ascoltavano i demo e decidevano cosa produrre o no. Le etichette che resistono, oggi, sanno già in partenza che il disco che producono venderà poco: spendono dunque pochissimo per stamparlo e non investono nulla sulla produzione artistica dello stesso. La soglia del rischio si è abbassata del tutto, per cui si produce ogni cosa - pur di ricavare dalla somma delle vendite di tanti dischi, anche mal fatti - piuttosto che pochi ben curati. Da cui: a cosa serve un'etichetta a un giovanissimo artista - ci si riferisce agli ambiti distanti dalle majors - che non ricava nulla e non ha supporti artistici e economici? A rischio di sembrar reazionario dico che oggi l'autoproduzione rappresenta un grande male. Si spaccia l'espandersi del fenomeno come fosse il trionfo della democrazia artistica; ma questa non è democrazia, è l'esatto contrario o il fallimento della democrazia. Proprio come internet, considerata la massima espressione di libertà, quando invece ne sta diventando l'esatto contrario, essendo le persone catturate e vittime di un meccanismo che fa sentire liberi per le infinite possibilità di contatto e di conoscenza date attraverso dei semplici click. Un'illusione di libertà e non una libertà vera.
La musica come il porno
Quello che sta accadendo alla musica - a causa della rete - è forse una delle espressioni più alte del capitalismo: potentissimo, trionfale, deflagrante. Non c'è stupidaggine più grande di quella detta da quanti parlano di crisi del capitalismo. La verità è che mai nella sua storia il capitalismo ha vissuto una fase così florida: pochi si accorgono - o forse meglio i più tacciono - che siamo di fronte a una crisi di crescita, pronta a creare un dislivello sempre maggiore tra ricchi e poveri. Tutto è partito dal "do it yourself", nocciolo primitivo del capitalismo, per arrivare all'"io voglio che tutti gli americani siano proprietari di qualcosa. Fallo da solo, tu sei padrone di te stesso", di Bush. Molti pensano che le etichette indipendenti siano nate per avversare quest'idea; a ben vedere, però, sulla scia di una certa estetica punk, invece di "combattere per un mondo migliore", hanno finito per pensare al loro mondo migliore; non è forse un bene né un male, è una constatazione. Oggi questo processo ha raggiunto il suo punto d'arrivo estremo: fai le tue cose, ti butti su MySpace e così sei nella mischia. Scarichiamo perché possiamo farlo e a nessuno frega nulla delle conseguenze; scarichiamo perchè è cultura immateriale, pensiero, e del pensiero non interessa a chi decide, a chi ha il potere. La storia odierna della musica è quella di essere il vero motore trainante - al pari del porno - della rete, il modello tremendo su cui molto velocemente si stanno conformando le altre arti.
La produzione non esiste più
Il ragazzo che spontaneamente fa i suoi dischi non è un artista. Qui l'equivoco. Tutti, essendo saltato completamente il mercato così come era, credono di essere artisti semplicemente perché caricano on-line i propri dischi. Non c'è nulla di male a farlo; è un segno di grande vitalità, ma non significa certo che tutti siano artisti. Si potrebbe fare il paragone con chi da adolescente scrive le proprie poesie, o con la miriade di persone che si professano scrittori solo perché mandano manoscritti alle case editrici: chiunque allora è scrittore, poeta, artista. Quella che sembra una banalità è un'ovvietà nella società della rete. Siamo al grado zero, con tutto il rispetto, dell'arte. Da cui la sovrapproduzione e il problema per chi dovrebbe fare da filtro, come una rivista, di trovarsi tra le mani qualcosa di dignitoso da ascoltare, e avere il tempo per scegliere, tra una marea di dischi, cosa recensire. Manca l'ossigeno e l'arte muore.
I giovani e il deserto
Ciò non significa che dischi belli o molto belli non ne siano usciti in questi anni, o non ne usciranno, così come fenomeni e movimenti interessanti; capita, però, sempre più spesso, che questi bei dischi siano nella maggior parte realizzati da persone di una certa età, persone non giovanissime. Il problema è quello che sta nascendo, oggi. Il problema grosso è che i ragazzi di 16-17 anni che iniziano a fare musica si trovano intorno un vero e proprio deserto; non c'è più nessuno che li ascolti davvero, che se ne interessi, che li curi. Sono soli. Se la critica non riesce a incidere sulla realtà, a fare da grande testimone, il rischio che corriamo è che non conteranno nulla anche quei pochi musicisti e cantanti che potrebbero davvero meritare di uscire dal deserto: un unico, indistinto, tremendo sommerso.
Santarcangelo, luglio 2010: John Vignola
La musica ha subìto senza dubbio molte trasformazioni negli ultimi anni; se gli anni Zero sono stati rivoluzionari per quanto riguarda le veloci trasformazioni tecnologiche che ci hanno attraversato, non lo stesso si può dire della musica. Mi occupo di rock, e restando a questo punto di vista, l'esempio è lampante: se proviamo a fare un'analisi formale non possiamo che riscontrare una certa povertà. Quel che resta della musica, ed è quell'elemento che la rende importante, è l'emotività che innesca, la sua storia sociale, la capacità di mescolare generi diversi. Dal punto di vista sociale e dell'impatto il rock è molto ricco e complesso, e questo è quel che resta. In un'epoca come la nostra, di continua confluenza tra i linguaggi, ogni cosa è lecita, purché si riesca a produrre un segno forte, quella che solitamente viene riconosciuta come "urgenza espressiva". E da un punto di vista critico serve rigore nel cercare continuamente di identificare questo segno forte. Un segno che necessita di essere accompagnato dalla tecnica: perché l'arte non sia ridotta al suo contenuto, bisogna saper esprimersi. La musica popolare che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento a oggi è stata un'eccezionale rivoluzione visiva, linguistica e sociale. Basti pensare a quanto un gruppo di ragazzini venuti da Liverpool abbia inciso sull'arte, sul cinema, sull'immaginario collettivo, sul costume sociale. La musica pop, per un certo periodo, è stata qualcosa di più di uno "scenario", ha comportato trasformazioni sociali concrete. Trasformazioni cui si è accompagnata l'affermazione della categoria di "giovane", una categoria presto divenuta categoria commerciale, con i media a trattare come oggetto quello che proprio la musica popolare vorrebbe trasformare in soggetto. In questa fase la musica ha vissuto un arco dirompente: è stata sperimentazione e un grande laboratorio di contestazione sociale. Oggi, almeno in questa fase, non più: sui processi creativi i media svolgono una funzione di controllo, che normalizza ciò che esce dai laboratori artistici: i gruppi entrano nel sistema, e solo in alcuni casi sempre più rari riescono a scavalcarlo. La storia della musica è, forse, sempre la stessa dagli anni Cinquanta ad oggi, ed è segnata da queste due tensioni. L'odierna perdita di peso della musica coincide con l'esaurimento dei supporti fisici - la fine del vinile e anche quella del cd, che in realtà è un supporto nato già morto - e con una certa confusione comunicativa che caratterizza la nostra epoca. La musica perde terreno, se si eccettuano i grandi riti collettivi, come il momento del concerto. La recessione culturale è innegabile. È possibile rilanciare questa situazione? La musica produce ancora momenti emozionanti quando innesca le ritualità che sono legate alla dimensione del concerto, e questo fa ben sperare. Se sarà in grado di abbandonare la dimensione della vendita del supporto, che è nella sua fase morente, potrà tornare ad essere un mezzo espressivo forte. Perché la musica è ancora in grado di radunare una grande quantità di persone, e questo è un fatto entusiasmante. La musica nel Novecento è stata importante soprattutto per la sua funzione sociale, che poi diventa anche arte - d'altronde l'arte senza la sua parte sociale diventa inutile, o è archeologia. Il ruolo della critica è importante solo nel momento in cui riesce a fare da tramite. Il divismo nella critica non ha senso, oggi ancor più, dal momento che il critico non è più quello che porta alla luce cose nascoste, che fa conoscere dei dischi rari presi in giro per il mondo, racconta le storie che stanno dietro ai brani e agli artisti. Tutto ciò è ormai su internet, in modo confuso ma accessibile. Se esiste ancora una funzione del critico musicale è quella di attirare delle persone. Divulgare il più possibile ciò che c'è di bello e importante, ma attraverso il contatto con le persone.