Tutti gli scrittori dovrebbero farsi un periodo obbligatorio di carcere, non è giusto che alcuni se lo facciano e altri no, così almeno non più prigionieri del loro io si occuperebbero di cose serie. Così diceva Busi trent'anni fa invitato a un convegno in Finlandia di scrittori lagnosi europei. Busi non a caso, perché è un campione dell'autofiction, grande stile grande penna ma che palle a parlare sempre di sé e mai di altro. Che un oggetto negletto come il romanzo sia ingrassato, dal dopoguerra a oggi in Italia e nel mondo, come un cannibale, la pecora nera del racconto di sé, dell'autofiction o della biografia come prima si chiamava, e sia diventato il genere infestante della narrativa e della letteratura è un fatto, un fatto culturale che non possiamo trascurare. C'è libro e libro, c'è bio e bio, del resto, e soprattutto bisogna sporcarsi le mani in questa materia e distinguere chi fa spettacolo di sé da chi, invece, fa corrispondere vissuto e arte, espressione e impegno, e mette dolorosamente il proprio vissuto in crisi. Non restiamo storicamente provinciali: le opere si sono sempre scritte così, non facciamo le anime candide. Non vogliamo camminatori delle stelle che, chiusi, volano alti solo tra le quattro mura. Cerchiamo il coraggio dell'ibridazione e non il suo alibi, perché all'interno di strumenti e persuasioni per capire la realtà si possono nascondere più facilmente doppi fondi del senso. (Nicola Villa)
Non solo teatro al Festival internazionale del teatro. Sembra un controsenso, ma in realtà è parte dell'essenza stessa di questa edizione.
«Sapere sempre dove si è può smarrire», canta Manuel Agnelli. È per incentivare questo perdersi alla ricerca del pantone rosso 186 C che a Santarcangelo 40 è stato scelto di dare voce alle letture di quattro scrittori, accomunati nei loro lavori dall'appartenere alla stessa generazione, dall'essere stati prima bambini e poi ragazzi praticamente negli stessi anni. Fuori da uno spazio non convenzionale come può essere un ristorante, Nicola Lagioia, Gaia Manzini, Giorgio Vasta e Simona Vinci ci hanno raccontato, e ci racconteranno durante il week-end alle porte, attraverso le parole dei loro romanzi, uno spaccato dell'Italia che ci circonda, ormai pronta a festeggiare i centocinquant'anni di presunta unità. Una prospettiva diversa, quella di parole scritte nero su bianco, che forse non hanno la forza emotiva e dirompente di uno spettacolo o di una performance, ma che scavano nelle coscienze creando dei dubbi. Il pubblico uscirà dall'incontro senza nessuna nuova risposta da sbandierare ai quattro venti come una verità assoluta, ma di sicuro con qualche domanda in più a grattare il capo: piccole nuove consapevolezze, lenti bifocali da mettere davanti agli occhi per re-interpretare la realtà. È in questo modo, così diverso, più obliquo, meno frontale ed estremamente tradizionale rispetto al teatro di ricerca, che gli scrittori del Festival agiscono con gli spettatori/ascoltatori, lasciando che le loro parole, lette ma non interpretate, raccontino un Paese che fa paura, sia attraverso quello che vediamo oggi intorno a noi, sia attraverso quello che, come un videoclip, ci è passato davanti ali occhi negli anni ‘80 prima e nei ‘90 poi. (Paolo Bottiroli)
Cosa significa leggere e ascoltare Rovina? Significa farsi invadere da immagini sovraesposte della pianura padana: la trasformazione del territorio - che conosciamo - e il cambiamento progressivo delle persone - di cui non abbiamo ancora una seria consapevolezza.
In una breve intervista alla fine dell'incontro Simona Vinci ha chiarito che la possibilità delle parole di arrivare al lettore dipende dalla capacità di proteggere dal fragore l'origine del discorso narrativo. "Ho la sensazione che in questo momento viviamo in un paradosso: allo scrittore è richiesto di essere fisicamente presente alle cose, io invece ho questo sogno dello scrittore che scompare dietro la sua scrittura. Purtroppo oggi forse non è possibile: tutto è pubblicità, apparire, presenziare. Penso invece che la parola abbia bisogno di un luogo nel quale sedimentare, di silenzio. Se vuoi avere una parola pesante devi farti leggero, e per me farsi leggeri vuol dire sottrarsi. In questo modo penso che le parole possano arrivare veramente di più alle persone." (Nicola Ruganti)