Il silenzio si allarga su una scena polverosa e scarna, abitata da presenze mute, mentre il pubblico ancora non tace il suo chiacchiericcio, ignaro dell'atmosfera rarefatta in cui presto si troverà avvolto.
Per questa creazione Raffaella Giordano ha scelto di partire da una suggestione pittorica, L'ultima cena di Leonardo da Vinci, che traspare in brevi tratti quasi in filigrana, una luminescenza debole come una candela accesa per illuminare una stanza troppo grande da non cedere al buio. Le azioni si succedono placide lungo tutta la durata della messa in scena, abitando lo spazio con i gesti semplici dei performer e dilatando una visione che vuol essere intensa nel suo presentarsi più come una comunione di anime che come una realizzazione spettacolare. Il magnetismo scatenato dall'incontro di queste persone tuttavia viene continuamente diluito, quasi sfocato, da questo stare scenico che si slabbra nella lentezza, quasi come se tutta l'intensità evocata precipitasse nel suo opposto, offuscando la visione.
Sul finale la coreografa, la cui commovente trasparenza si staglia sulle altre presenze da lei riunite, costruisce un quadro evocativo e struggente, come una novella pietà o un nuovo corpo sacrificale, per poi lasciarlo concludere con tutti i danzatori che raggiungono il proscenio, sedendosi e porgendoci il fianco della loro nuda umanità.
In questo darsi in pasto allo sguardo del pubblico senza la protezione di un diaframma chiaramente percepibile, quello di Raffaella è uno spettacolo che smarrisce, e resta il dubbio di aver ceduto alla noia senza averlo saputo guardare con occhi abbastanza larghi.
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