Ti conosco come danzatrice degli spettacoli di Roberto Castello. Da quanto tempo lavori anche come interprete solista?
Dal 2004 e non mi sembra che siano già passati tre anni. Per la quantità di cose fatte. Di fatto sento di aver compiuto un unico lavoro. Altri sono stati toccati e sono confluiti in questo percorso che si chiama Merce. C’è in ballo un lavoro nuovo che non credevo di portare qui, mentre in realtà mi ritrovo a spappolare proprio quello. Per lo meno per la prima sera, si vedrà un rimescolamento di un lavoro a cui sto lavorando da un anno, a tappe.
Proprio in relazione a questo, pensi al progetto di Prato come l’inizio di un percorso o un passaggio?
La carta bianca che il Festival Contemporanea ci ha dato, il fatto che si tratti di un luogo non teatrale, quindi non neutro per nulla, e il tempo di 15 minuti sono insieme dei limiti, ma forse possono diventare delle risorse. Vorrei approfittare di questa opportunità per usare il pubblico come cavia, cosa che ho già fatto in questi anni: lavorando da sola gli spettatori sono il mio occhio esterno, un primo confronto che può non essere sempre positivo. Devo dire che il pubblico è stato il mio co-autore per le cose che hanno funzionato.
Le occasioni sono poche e magari all’interno di un contenitore come questo si generano delle possibilità…
Si, è un’opportunità ma che può essere anche discutibile perché considerato che un emergente è in qualche modo debole, forse il lavoro sarebbe più tutelato senza questi vincoli di spazio e di tempo. Ma questo dipende dal contesto. La sfida qui è questa. Stasera è anche forse per mancanza di coraggio che non propongo una cosa completamente nuova. Mi proteggo con del materiale che conosco. Vorrei che questo momento servisse anche a me. Questo lavoro ha aspetti importanti, ma anche aspetti di scarsa chiarezza. Valuterò di sera in sera, di mattina in mattina.
Il materiale che hai portato qui, fa parte di un percorso, di cui prevedi un esito finale?
So da dove viene, proprio non so dove va. Questa è una cosa che mi riguarda più in generale: so da dove parto, ma di rado mi pongo il punto di arrivo. Con gratitudine. Con gioia. Non si tratta di brancolare completamente nel buio però c’è una gran parte di vuoto che si apre. È abbastanza chiaro da dove parto, però allo stesso tempo è un passaggio che non so dove porti. Questo lavoro è per me il secondo quadro di un dittico che si apriva con il mio primo solo, nel 2004, che era Eda. Dittico significa che i due lavori sono indipendenti, autonomi, ma l’auspicio è quello di poterli presentare nella stessa sera, uno dopo l’altro. Cosa che ancora non è accaduta. Mi sono così affezionata a Merce, che è l’unico lavoro con un senso compiuto, e mi piace così tanto farlo, che l’ho sempre spinto di più.
Mi racconti di Merce?
Merce è un catalogo di spettacoli. È uno spettacolo contenitore. L’ho pensato a partire da una scelta di riflessione politica, in chiave sarcastica. Il concetto centrale di Merce è che i nostri prodotti, le nostre creazioni diventano una merce, un prodotto commerciabile, non commerciale, ma “di commercio”. Estremizzando, è stuzzicante dire che anche il nostro essere scenico diventa un prodotto commerciabile. Alla fine di ogni tranche di spettacolo viene stabilito il prezzo. Come in una vetrina.
In questo tuo “portarti” dietro un bagaglio composito, come coniughi il lavoro con ALDES/Roberto Castello?
Ci sono diversi livelli rispetto a questo discorso. Il desiderio fortissimo di lavorare da sola era maturato dopo l’esperienza in un’altra compagnia che a livello umano e relazionale era stata molto difficoltosa e in gran parte negativa. Ho maturato tanta voglia di fare una cosa io, da sola, che fosse mia, che io riconoscessi. Questa è stata una sorgente molto feconda. E lì mi sono messa a lavorare su tracce di vita personale, perché poteva essere una testimonianza universale. Speravo non fosse autoreferenziale e mi sembra di esserci riuscita.
Quasi in concomitanza con questo, ho incontrato Roberto Castello sul mio cammino. Per indole a me piace il lavoro di gruppo e in Aldes ho trovato delle persone con cui lavoro bene. È un bel lavorare, con degli scontri come capita nelle collettività, ma che funzionano anche da valvole. Si lavora ovviamente su una marca autoriale che è quella di Roberto, che ne ha anche la responsabilità finale. Il tema della responsabilità è grosso. Quello che vi presento qui è mio, e lo assumo totalmente su di me. In un altro contesto è invece comodo sapere che proponi tantissimo, perché ti viene richiesto, ma è un sollievo non averne tutta la responsabilità.
Ti senti più libera in un collettivo?
Ci sono i due aspetti. Da un lato maggiore libertà in un collettivo diretto da un’altra persona e da un lato maggiore libertà nel mio. E viceversa. Tenere il piede in due scarpe è comunque complesso a livello di tempi, di energie. Sicuramente questa collaborazione fa sì che possa esserci un’influenza di Roberto nel mio lavoro, così come del mio lavoro in quello di Roberto. Se ho scelto di incontrare Roberto è sicuramente perché c’era già qualcosa in comune.
Quale è la tua formazione?
Danzo da quando ho cinque anni. Mi piaceva danzare e, dalle medie in poi, ho danzato tutti i pomeriggi della mia vita, ma non ho mai pensato realmente di farne un mestiere. Volevo fare l’attrice di teatro. Però dicevo che non doveva essere attrice di prosa, ma una cosa diversa, che non sapevo cosa potesse essere. A ventuno anni sono andata a Parigi e ho visto altre cose. Tutto quel danzare fino a quel punto ha acquistato senso lì. Come se avessi trovato quello che stavo cercando.
Come mai Parigi?
In Erasmus. Parigi è stata una grande scuola. A Parigi le cose ti cadono addosso. Tra queste le audizioni di compagnia. Cercavo annunci e andavo alle audizioni, perché spesso erano classi, e quindi una lezione gratuita. Le scuole erano molto costose, non potevo permettermele. Per caso e senza nessuna aspettativa, mi hanno preso in due compagnie, tra cui una di hip hop. Ero un disastro e mi hanno presa perché ero ridicola e improponibile. Ho lavorato con loro due anni. A Parigi ho lavorato anche all’Odeon, con Jean Claude Gallotta. Mi sentivo una principessa e questo corrispondeva ai grandi sogni di bambina di fare la grande attrice. Grande non io, ma il contesto. I cioccolatini, il camerino, i fiori…
Una domanda più generale sulla nuova scena della danza contemporanea in Italia. Che spazio credi ci sia per la giovane generazione?
Avrei tante cose da dire. Mi ritengo fortunata perché ho un altro lavoro, all’università, e così uno stipendio assicurato. Questo mi consente di osservare molte cose, anche tristi. Molti studenti non sanno neppure perché si sono iscritti, non sono neppure mai entrati in una sala teatrale. Non mi spiego la ragione della loro scelta. Tuttavia, nonostante il quadro desolante, resta la voglia di continuare ad insegnare a chi ha invece interesse e passione per ciò che studia.
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