INTERVISTE > Roberto Corradino, prima di tutto viene l'attore
Roberto Corradino: attore, autore. Cosa vuol dire?
Io sono convintissimo che non esista teatro senza attore quindi Roberto è, prima di tutto, un attore e non un performer. Sarò tradizionalista, ma l’attore è il centro intorno cui orbita tutto l’evento teatrale. L’attore deve studiare se stesso, partire dalle sue potenzialità e trasformarle in concrete possibilità. La tecnica è sicuramente importante ma ognuno la rilegge secondo la sua personalità, la sua vocazione, le sue capacità. L’attore, essendo “cardine” del fatto teatrale deve essere anche regista, autore e spettatore di se stesso. Le prime abilità che deve acquisire sono il saper comunicare e il saper relazionarsi con gli altri spettatori, elementi indispensabili per far sì che un evento sia teatro. Come attore mi pongo delle domande che mi rodono dentro e che sembrano non avere risposta. Secondo passaggio, immediato e quasi contemporaneo, è il momento in cui mi dispongo a porre queste domande agli spettatori pronti ad ascoltarci, a guardarci, a spogliarci con gli occhi. Il sacrificio umano dell’attore che si predispone e si pone davanti ad un pubblico giudicante, stimolato dalla curiosità di quello che sta guardando, è funzionale solo se porta lo spettatore a farsi altre, ulteriori domande. Il teatro è vivo se attori e spettatori interagiscono, si alimentano a vicenda, producono questioni e cercano soluzioni anche senza trovarle. Roberto è anche autore perché penso che l’attore non può essere una marionetta nelle mani di qualcun altro né un semplice esecutore; deve crearsi ogni volta e per farlo ha bisogno di acquisire autorialità. Se l’attore modifica se stesso ogni volta che entra in scena deve anche avere la capacità di mettersi in gioco con coscienza e sapersi dirigere prima di farsi dirigere e sapersi creare una drammaturgia per poter esprimere al meglio le sue qualità. Quando penso all’attore-autore ho sempre come riferimento Helen Weigel che, quando recitava al Berliner Ensemble, arrivava sempre “dopo” rispetto agli altri attori, perché lentamente e con perizia “scriveva” la sua parte prima di recitarla.
Perché hai scelto di fare l’attore?
Perché ho sentito il bisogno di farmi domande a cui non ero e non sono capace di dare risposte da solo. Ho bisogno di sentirmi vivo in rapporto agli altri e il teatro (quello che respira, che sa modificarsi a secondo delle esigenze umane) mi spinge a mettermi continuamente in gioco cercando sempre gli input da chi mi guarda e mi ascolta.
Secondo te il teatro ufficiale si pone delle domande e cerca di trovare delle risposte?
Il teatro ufficiale si è cementificato. Si sviluppa intorno alle esigenze di mercato: è un super-mercato come diceva Leo De Berardinis, che pure ne usufruiva. Io credo che se il teatro non è disposto ad affrontare sempre nuove questioni, rimane un mero contenitore che raccoglie prodotti da vendere, facilmente digeribili ma privi di capacità realmente comunicative e efficaci.
Quindi lo spettatore nei tuoi lavori è un elemento imprescindibile, fondamentale e necessario.
Decisamente. Mi chiedo: se lo spettatore non entra in relazione con me io che sto facendo davanti ad un riflettore o sopra un palco? Sarebbe come parlare in una lingua incomprensibile per chi ci ascolta. E sinceramente non capisco chi si crogiola nella ricerca e si disinteressa della relazione con lo spettatore perché così facendo crea una sperimentazione-meteora che nuota nell’aria.
Tu cerchi uno spettatore ideale?
Assolutamente no. Il mio desiderio più grande sarebbe riuscire a comunicare e a relazionarmi con tutti gli spettatori: sia quelli dei teatri stabili sia quelli dei festival di ricerca. Dissi una volta questa cosa a Paolo Ruffini che mi guardò sconcertato e mi disse: “tu pretendi l’impossibile!”. E impossibile sia!
Parliamo della tua formazione: hai frequentato l’INDA per poi passare ai laboratori del Living, della Raffaello Sanzio, di Martinelli e compagni. Reputi il tuo percorso professionale anomalo?
Direi proprio di no. Il mio percorso teatrale è vivo perché cambia, si modifica, si plasma su nuove esigenze, si specchia in diversi specchi. È autolesionista fermarsi a una sola esperienza: l’INDA è stato il mio inizio ma era troppo poco. Chi si è fermato alle prime esperienze di formazione ha fatto due o tre grandi spettacoli con grandi registi (cadaverici aggiungerei io) e ora ha aperto una tabaccheria e ogni tanto fa qualche performance estiva. Questo perché chi non è disposto a cambiare e a cambiarsi lentamente muore.
Come nasce e perché nasce Vietato ai minori?
Prima di tutto Vietato ai minori è un evento, come eventi sono molte delle mie performance, perché vogliono colpire, dire sempre qualcosa. Questo evento è l’inizio di un nuovo percorso o comunque una fase di studio che inaugura il mio interessamento ad una vera e propria drammaturgia dell’attore-autore. Per me la parola è veramente importante: non il testo che comunque resta una base di partenza su cui si può lavorare, ma la parola viva che comunica. Vietato ai minori trae forza proprio dalle forti parole e dalle suggestioni e reazioni che possono scaturire. Quello che ne viene fuori sono vari racconti intrecciati sull’idea di suicidio che sembra essere l’unica soluzione per superare la non convivenza con l’inumano mondo del lavoro. Ma la cosa più importante resta sempre la potenza della parola legata alla sua capacità comunicativa.
In molte performance dell’Alveare Off (tra cui la tua) c’è la morte, spesso in forma di suicidio. È la manifestazione di un disagio generale o un puro caso?
Non so se gli altri artisti hanno voluto esprimere un disagio esistenziale. Sicuramente io porto la morte in scena perché il teatro è il luogo ideale per morire, risorgere e morire di nuovo. Di fronte a noi c’è la vita rappresentata dagli spettatori; noi artisti invece rappresentiamo l’altra faccia della stessa medaglia: la morte appunto, che fa comunque parte della vita.
Last but not least: secondo te le tue sono braccia rubate all’agricoltura?
Una volta Goffredo Fofi complimentandosi con me per un mio spettacolo mi disse: ‘tu sei venuto dal profondo sud per fare l’artista. Pensa, ora potevi coltivare ulivi e a produrre olio’. E in realtà aveva ragione! Però penso che io i miei pomodori me li sto comunque coltivando!
Roberto Corradino è attore e autore. Si è formato a Siracusa presso l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) per poi perfezionarsi con stage di studio sulla voce, sulle tecniche del movimento e sulla danza sotto la guida di registi e attori come Pressburger, Pagliaro, Martino, Castellaneta, Laurenzi, Randazzo, Gueli. Ha continuato la sua formazione seguendo i laboratori di Alfonso Santagata, Spiro Scimone e Francesco Sframeli, della Raffaello Sanzio Socìetas, di Cesare Ronconi, Danio Manfredini, Ornella D’Agostino, del Living Theatre, di Pippo Delbono, Pepe Robledo, Krystian Lupa, Marco Martinelli. In teatro ha lavorato con Mimmo Cuticchio con Visita guidata all’opera dei pupi, Le vie per Roncisvalle e ne Il Silenzio di Pippo Delbono. Conduce laboratori di formazione teatrale presso scuole, istituti superiori e associazioni. Nel 2005 produce Perchè ora affondo nel mio petto, riscrittura della Pentesilea di von Kleist e La commedia al sangue, liberamente ispirato al romanzo Di questa vita menzognera di Giuseppe Montesano in coproduzione con la compagnia Grammelot e il festival dei Mondi di Andria. Fonda il Reggimento Carri nell’ottobre del 2000 con cui produce 1° Movimento per un Amleto contadino/pane e vino, Scheggia, 2° Movimento di Amleto contadino/ Primi passi al macello, tre tentativi di rilettura del testo shakesperiano e l’Inumano, una riscrittura corale basata sul l’Ivanov di Cechov. Nel 2003 è finalista al Premio Generazione Scenario 2003 con Piaccainocchio. A Contemporanea Festival presenta Vietato ai minori (paesaggio urbano con figure).
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