INTERVISTE > Antonio Tagliarini e la frontalita' dispettosa
Chi è Antonio Tagliarini e come lavora?
Mi sono formato studiando danza contemporanea, poi ho deciso di allargare la prospettiva ad altri linguaggi. In un primo momento è stato molto difficile, si è trattato di una sorta di crisi che ha investito il bagaglio tecnico già acquisito. Successivamente è diventata una sfida, che ponevo prima di tutto a me stesso, tentando di superare i blocchi e le costrizioni che mi portavo dietro in quanto danzatore. Non volevo più pensare in termini di genere, la cosa principale era sviluppare un'idea e individuare la forma migliore per veicolarla, dalla danza al teatro alla performance. Chiaramente questa scelta artistica si riflette sulla fruizione: anche allo spettatore viene richiesta una maggiore apertura. In questo le arti visive, anche dal punto di vista della fruizione, sono più libere, lo spettatore ha meno aspettative riguardo a codici e generi. Nel nostro ambiente ci sono più difficoltà. Spesso mi dicono che faccio teatro-danza, cosa che mi crea qualche problema. La tradizione del teatro-danza è stata fondamentale, basta pensare a Pina Bausch, ma non è lì che guarda il mio lavoro. Non è facile riassumere il mio percorso. In effetti si può dire che io stia lavorando da tempo sulla biografia, e tutti i miei spettacoli siano una dimostrazione dell’impossibilità di giungere a una definizione. C’è un bisogno di definizione nostro e degli altri su di noi, nei miei lavori parlo di me e mi rendo conto che si tratta di un atto destinato al fallimento.
Ci parli un po’ più nel dettagli del progetto Show? Magari ricollegandolo alle altre due tappe della trilogia…
Show, che qui a Prato ho portato come studio, fa parte di un percorso a tre stazioni, composte da Freezy e da Titolo provvisorio:senza titolo. In scena mi metto sempre da solo, l’oggetto delle mie riflessioni sono proprio io e il mio stare nello spazio. Freezy lavorava sull’esserci e sul non esserci, sullo stare ai margini delle cose e sullo starci dentro, l'identità era una questione centrale. In Titolo provvisorio ho provato a riflettere su questa situazione. Titolo provvisorio è stato un secondo solo, accompagnato dall’ansia tipica di tutte le seconde opere. L’oggetto di indagine si è spostato sul concetto di rappresentazione, sulla dicotomia vero/falso e sul tentativo di metterla in discussione non solo dal punto di vista teatrale. Oggi il “verosimile” è un concetto inflazionato, che tocca da vicino praticamente tutte le cose, e con Titolo provvisorio ho provato a riflettere su questa situazione. Devo poi aggiungere che esiste un filo conduttore nella trilogia, che è proprio la figura di Freezy, un mio alter ego: un esserino che stava dentro a un frigorifero e che nel secondo spettacolo viene invitato da me durante l’intervallo per mettere a posto la scena. Anche in Show tornerà, sto cercando di capire in che modo. Questo alter ego mi aiuta nel processo di messa in discussione del personaggio: in realtà Freezy è un personaggio, ma è come se non lo fosse, è come se fosse un doppio di me. Mi permette di parlare ironicamente di cose che sarebbero troppo pesanti, io mi metto di lato e lascio fare tutto a Freezy!
Nel tuo lavoro è evidente la volontà di analizzare e smascherare certi meccanismi della odierna società della comunicazione. Quale è la tua posizione di autore? Si tratta di critica, di fotografia, di indagine mirata a comprendere?
Di tutte sicuramente l’ultima ipotesi è quella che mi rispecchia maggiormente. Apro dubbi sul mio operato, primariamente, ma anche su tutto quello che vedo intorno a me. Oggi il concetto di dramma e quello di sofferenza sono molto in voga. Mi chiedo: come posso portare la sofferenza di fronte a uno sguardo, senza cadere nel patetismo? Sono tempi di forte sofferenza, non voglio stare a insistere. Quello su cui mi soffermo è il trattamento della sofferenza, che non può essere lacerante. Un’altra questione riguarda i meccanismi di narrazione. Rispetto alla linearità di un racconto io amo spezzare, scardinare. Ovviamente in riferimento a un codice preciso , quello della rappresentazione a teatro. Show vorrebbe aprire un dialogo con i lavori precedenti, è anche uno sguardo retrospettivo sulla trilogia. In questo momento mi trovo in una fase delicata, avendo un’anteprima fra qualche settimana a Roma, e il “caos” che mi circonda deve essere pacificato!
Prima dicevi dell’impossibilità di arrivare a un risultato stabile nel processo di trascrizione della biografia a teatro. Questo Show visto qui a Prato, la prima sera, ammette addirittura di non essere uno spettacolo e di non avere niente di pronto da mostrare. Ci spieghi meglio questo fallimento? In cosa consiste?
Si tratta di due concetti molto semplici: un “fare” e un “non-fare”. Quando agisco faccio, chiudo, porto avanti un discorso. Quando non agisco creo uno spazio vuoto, un silenzio, che racconta della fragilità, dello sconosciuto. In scena vorrei far dialogare questi due aspetti e giocarci. Una parte di Show si concentrerà molto sul vuoto, sulla non-azione apparentemente improvvisata. A un certo punto, però, vorrei ripetere tutta la sequenza in maniera identica, per creare un cortocircuito. Come se il vuoto precedente si riempisse all’improvviso, e questo di seguito senza soluzione di continuità, come se vuoto e pieno fossero parti non più oppositive di uno stesso discorso performativo.
Questo continuo gioco sui limiti, questo confine che sceglie di relazionarsi con uno spettatore che non sa quello che si aspetta, non richiede forse una eccessiva vicinanza o complicità con chi guarda? Detto altrimenti, non pensi di stare creando uno spettatore che ti segue proprio perché ti conosce?
Non penso. Amo relazionarmi con persone che non conoscono il mio lavoro. È un discorso particolare. Rispetto profondamente il pubblico, e di certo non penso di incontrare qualcuno che mi capisca o mi consoli nei miei dubbi identitari(...risate). Sta tutto nella frontalità che pongo alla base degli spettacoli, che non posso scardinare... così provo ripensarla creando dei disturbi laterali. Uno di questi è la dichiarazione di “inabilità”, «io non ho preparato nulla, non so che fare...». C’è il pubblico che mi guarda, ma ci sono anche io che guardo loro, che li osservo, che lo stuzzico. La mia è una frontalità dispettosa.
L’ultima domanda mi piace fartela un po’ più politica. Ricorre in questi ultimi tempi il concetto di indipendenza, attraverso festival, rassegne, vetrine che mostrano principalmente il cosiddetto teatro emergente. Secondo te ha senso utilizzare questa parola? E se sì, come la declineresti? Ovviamente partendo anche dalla formula alveare…
L’alveare mi è sembrata una buona occasione, che ci ha permesso prima di tutto di metterci in relazione con altri lavori e altri artisti. Anche sul formato breve sono positivo, mi sembra una bella scommessa, un bell’esperimento prima di tutto per noi, anche per smettere di pensare che un lavoro debba per forza essere di cinquanta minuti e oltre. Detto questo, chi parla di indipendenza lo può fare solo se smette di lamentarsi. Allo stesso tempo, però, bisogna rimanere attivi, vigili, agire. È innegabile che esista ancora un mainstream. Ti parlo di Roma, dove vivo. Lì si avverte la mancanza non di strutture ma di finanziamenti che ti permettano di prenderti un tempo e uno spazio per una ricerca. Prendere coscienza e agire è fondamentale, anche se non ci possono essere modelli validi per tutte le stagioni, anche perché il rischio di ritrovarsi sempre tra gli stessi a lamentarsi è sempre dietro l’angolo. Una bella iniziativa che sta nascendo è una rete nazionale su base nazionale per la danza, un coordinamento, un modo per relazionarsi con le istituzioni in maniera collettiva. È importante creare collegamenti, conoscersi, relazionarsi anche in modo formale. Staremo a vedere.
Antonio Tagliarini studia danza e recitazione con vari maestri come Danio Manfredini, Thierry Salmon, Raffaella Giordano, Giorgio Rossi. Come attore ha lavorato, tra gli altri, con la compagnia Massimiliano Civica. Dopo un'esperienza in Portogallo, arriva il suo primo solo Freezy (2002), stralunata cameriera inglese che comparirà anche negli altri lavori telefonando in scena ad Antonio Tagliarini; Titolo provvisorio: senza titolo debutta nel 2004 e indaga il concetto di rappresentazione, mentre Show, per ora, si configura come una impossibile autobiografia rimescolando Pirandello, Amleto e La Società dello spettacolo.
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