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PER UNO SPETTATORE CRITICO, LABORATORIO DI GIORNALISMO > Tra arte e performance. Conversazione con Francesca Grilli
Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016.



Francesca Grilli nasce a Bologna nel 1978, vive e lavora ad Bruxelles ed è un’artista contemporanea dalle tante declinazioni e contaminazioni (dalla performance al cinema, dalla danza alla musica). Dopo essersi formata come fotografa all’ISIA di Urbino, la sua carriera artistica inizia nel 2001 collaborando con Alessandra Caccia a Milano sotto il nome di “Caccia Grilli”, esperienza che porta Francesca sulle sponde della video arte, per poi esordire nella performance nel 2006 con Arriverà e ci coglierà di sorpresa.
Al Contemporaneafestival 2016 di Prato, Francesca Grilli ha portato la performance
The forgetting of air.


Mi incuriosisce il tuo dialogo costante ma non diretto con il cinema, in particolare con la figura di Maya Deren. Perché la memoria di questa regista è così importante per te e in che modo ha influenzato il tuo lavoro?

Ci sono due elementi che mi vengono in mente, senza pensarci più di tanto. Il primo: io insegno pratiche e cultura dello spettacolo all’Accademia delle Belle Arti a Bologna e Maya Deren è la mia materia d’esame. La sua carriera si è sviluppata in un’epoca non sospetta (gli anni '40, NdR), quando intraprendere la strada del cinema indipendente era una scelta estremamente difficile, sopratutto in una paese che era molto diverso dall’Europa, cioè gli Stati Uniti, dove Hollywood era un paesaggio unicamente maschile.
Maya mi affascina come essere umano, mi ha sempre colpito la sua forza e la sua passione indomita per quello che faceva. Morì in povertà, lasciando una grande eredità artistica: grazie al suo lavoro si apre infatti un discorso sul corpo della donna, per esempio con l’uso dello specchio che verrà lungamente ripreso dagli anni ’70 da registi come John Jonas. Io la considero una pioniera, una donna dotata di grande coraggio.
Il secondo motivo è che, nella sua cinematografia, Maya Deren utilizza il montaggio con un occhio performativo, sviluppando il concetto di déjà-vu e creando una sorta di danza cinematografica, che altro non è che riprendere la stessa scena da più punti di vista e montarla come se fosse una sorta di loop, ma mai uguale. Queste sue contaminazioni fra i generi, che vanno dal cinema sperimentale fino alla danza e alla performance, mi risultano utili poiché lavoro su campi diversi. Poi c’è tutto l’aspetto magico che la Deren sviluppa nella sua tarda carriera, e che trova un’assonanza con i miei interessi personali.

L’esoterismo, la magia e il rito sono elementi presenti fin dalle origini del tuo percorso artistico, da Arriverà e ci coglierà di sorpresa (2006), passando per Moth (2009) fino a The forgetting of air che hai portato qui a Prato. Mi sembra che tali emanazioni del tuo lavoro passino direttamente da elementi come il suono, il magnetismo e adesso l’aria. Sono forse questi elementi a creare quell’interconnessione magica che nei tuoi progetti è veicolo di comunicazione?

È un’interpretazione, ma è una questione aperta. La fruizione di un lavoro dipende molto da quello che una persona proietta su di esso. Dal mio punto di vista sono più interessata a condividere l’invisibile piuttosto che il visibile, dato che sul secondo già ci lavorano in tanti, l’aria è satura di parole sul visibile. Io forse (e senza pretese esoteriche) sono convinta di essere un buon canale per tutto ciò che è invisibile. Il suono, che è un elemento invisibile ma tattile, e l’aria, che è il materiale della mia ultima performance, sono materie importantissime che ci siamo siamo scordati, dato che la società ti porta a essere assorbito da tutto quello che è visibile. Tutti i miei lavori hanno moltissimo a che fare con i concetti di ancestrale e di ritualità, e anche nella performance che propongo al Contemporanea vi è una forte dimensione rituale e sonora, nonostante l’aria sia fatta di “niente”, non la vedi ma la senti. È come fare un passo indietro su una questione ancestrale. Citando Irigaray: «Il respiro come primo gesto performativo del corpo». Il respiro, dunque, come primo gesto di presenza e di vita.

Il concetto di rituale e l’esoterismo sono elementi molto presenti in una parte della scena musicale underground italiana (la cosiddetta "psichedelia occulta"), ma sono pure un sottotesto della cultura mediterranea, oggi messo in luce da tante realtà artistiche contemporanee.

Non bisogna pensare alle mie performance come a dei riti, come per esempio nei lavori di Nico Vascellari o nei film di Kenneth Anger, i quali presentano una ritualità molto accentuata. Per me è un po’ diverso e adesso tendo a dosarmi, anche se è vero che nelle mie opere giovanili come Moth gli elementi esoterici erano più palesi. The forgetting of air consta invece di due condizioni, come se il rito fosse “dietro”, per cui quando lo vedi non pensi che sia un rito, è come se questa sua dimensione fosse stata assorbita già nel processo.
Rispetto al discorso che introducevi a proposito della relazione tra cultura mediterranea e magia, vivendo da alcuni anni in nord Europa mi sono resa conto che si è persa la vicinanza con certe pratiche del corpo. Penso alle vecchiette che ti “segnano” quando hai l’orzaiolo o il mal di schiena, una pratica che da noi è ancora quotidiana e si ricollega ad antichissimi riti pagani legati alla cura del corpo. Se penso alla Scandinavia, in particolare rispetto alla musica, il rituale (mi viene in mente il satanismo) è molto presente ma ha un’altra valenza.

Produci performance di cui non sei protagonista, una prassi molto "cinematografica" che ti avvicina in parte alla figura del regista, qualcuno che siede con lo spettatore mentre la sua visione viene “eseguita” da altri.

Diciamo che ci sono diversi ambiti nei quali il mio ruolo cambia di significato, e a volte questo può essere un valore aggiunto. Il mio lavoro si dispiega prettamente nell’ambito dell’arte visiva, ma talvolta vengo ospitata dai festival teatrali o in ambiti musicali. Mi è capitato anche di essere stata invitata a mostre ed eventi di arte contemporanea e che le persone non andassero a guardare il mio lavoro “in atto”. Venivano da me e mi chiedevano di fare una performance, in effetti si era creato un automatismo per il quale per fare una performance ci dovevo essere.
Eppure, dal mio punto di vista io ci sono anche troppo anche quando non ci sono: durante una delle mie prime performance, Enduring Midnight del 2007, la cantante lirica Lina Vasta cantava un’aria a mezzanotte, e tra il pubblico c’era una mia amica che all’uscita mi disse: «È stato bello vederti vecchia». Anche se il corpo non era il mio, c’è stata una traslazione, una proiezione. È chiaro quindi che per il pubblico sono io la mente, tutto quello che si vede accadere durante le performance è proiezione dei miei desideri, ma il mio corpo da solo non basta a colmarli. È vero invece che nei miei film appaio, ma si tratta di una forma d’espressione che ha delle necessità completamente diverse.

La performance The artist is present di Marina Abramović proponeva più o meno lo stesso concetto, ma in una forma totalmente opposta alla tua. Da un certo punto di vista, il tuo è un processo creativo piuttosto punk.

Certamente, io esordisco il mio corso all’Accademia dicendo sempre ai miei studenti: «Siate punk! Voglio vedere la vostra parte punk!».

In che modo, da artista contemporanea, ti rapporti al fruitore occasionale, a colui che non dispone della grammatica necessaria per leggere il tuo lavoro?

Secondo me nell’arte contemporanea c’è un grande problema di comunicazione. Forse nel teatro si percepisce meno, ma nelle arti visive la questione è decisamente aperta. Gli artisti sono chiusi in se stessi, siamo come quegli insetti che hanno la corazza dura e se li tocchi di riflesso si chiudono in una pallina. Ecco, secondo me siamo arrivati al punto della pallina: siamo troppo autoreferenziali e il fruitore non può comprenderci, a volte neanche io riesco a comprendere certi lavori a cui assisto. Ciò non vuol dire che occorra semplificare l’arte a discapito del contenuto. Io credo fermamente nell'educazione, si deve educare stimolando nell’altro una curiosità, ci deve essere una sorta di uncino invisibile che ti prenda e ti trascini verso qualcosa. A me capita di mettere in pratica questo concetto persino con coloro che sono chiamati a lavorare in qualche mia produzione. Succede che queste persone a volte non sappiano in cosa consista la produzione in sé, a loro chiedo di venire a vedere il mio lavoro. A Cosenza qualche tempo fa incontrai un signore che sicuramente non padroneggiava le grammatiche dell’arte contemporanea, mi disse che non aveva capito niente delle altre performance così lo invitai a vedere la mia. Mi ricordo una lunga chiacchiera su quello che aveva percepito, il lavoro alla fine gli era arrivato, ovviamente a suo modo. Penso che un lavoro debba arrivare a tutti, e se così non è ci sono dei problemi. Il rischio è che si formi un’élite (che già c’è, sopratutto nell’arte contemporanea) con i musei visitati solo dagli addetti ai lavori.

Cosa ci racconti del tuo ultimo lavoro, The forgetting of air, presentato qui a Prato?

È una performance che si distacca in parte da alcuni aspetti della mia produzione precedente. Mi è sempre interessato il comportamento delle persone, ma questa è la prima volta che ne affronto anche le conseguenze politiche, in particolare su un tema così sentito dall’opinione pubblica come l’immigrazione. Come essere umano, come italiano e come artista, quando senti qualcuno che ti batte sulla spalla, devi rispondere.
La performance ha debuttato al MAXXI quest’anno, e credo di avere fatto suonare un campanellino interiore agli spettatori. Ci sono ancora molti tabù da sciogliere sull’immigrazione e spero di avere contribuito a sfatarne un po’. È un progetto semplice ed essenziale, che consiste nel condividere la stessa aria con delle persone che hanno vissuto delle esperienze dirette e molto forti legate alle ondate migratorie. La vicinanza dei corpi, il semplice “esserci”, non c’è bisogno di aggiungere altro. Ho l’ambizione di costruire una semplice condivisione umana.
 
 
Giuseppe Di Lorenzo - Laboratorio "Per uno spettatore critico"
 

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