Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016.
Lo spazio del Magnolfi, nella presente edizione, ricorda un poco quello che è stato un marchio di fabbrica di Contemporanea negli anni passati, il progetto Alveare. Aggirandosi per corridoi, stanze e celle si incontrano brevi spettacoli come appunti di lavoro che sono mostrati ai loro inizi. Uno spazio di prossimità tra sguardo e creazione è quello del Magnolfi, il cui spirito andrebbe preservato qui o in altri contenitori anche nelle prossime edizioni. Uno spazio di “messa alla prova” che ogni artista intende in diverso modo e prendendosi rischi diversi: confezionando, sperimentando, ripetendo. Riprendendo una nota dalle conferenze di Claudio Morganti, ci si potrebbe domandare: ciò che si vede è una ricerca in atto, che muta nel momento stesso in cui si mostra? Questo potrebbe essere il senso di uno spazio intimo come quello pensato per il Magnolfi. Vi proponiamo un nostro “diario” della prima giornata tenendo sullo sfondo questa “domanda di teatro”.
Pochi posti a sedere per assistere a Transhumance di Ilaria Drago, ma tante persone a vederlo. Sono l’ultima a entrare sorpassando un paio di ragazze in attesa che mi guardano pure male. Salgo le scale di corsa, da lontano si sente la voce della Drago e quando arrivo nel corridoio del Magnolfi la performance è già cominciata. Davanti a me un muro di persone ostacola la vista. È il dramma di essere bassi in un mondo di posti in piedi. Col senno di poi, e dopo essermi confrontata con chi era seduto in prima fila, posso dire di aver visto circa mezzo spettacolo. Ma il resto l’ho sentito, con le orecchie, ma soprattutto con il corpo: quando la vista viene meno, le percezioni si adattano. Quattro momenti precisi, ben scanditi, che descrivo così come ho quasi-visto: la performer di spalle, una voce potente ed espressiva che si fa corpo per raccontare la storia di una fuga disperata dalla patria e dalla tremenda esperienza dell’infibulazione che ha vissuto. Nel secondo quadro corre, viaggia rapida su uno sfondo nero, come se stesse venendo dal nulla e andasse dritta verso il nulla, ogni tanto si gira per essere sicura di non essere seguita. Nel terzo quadro affonda in un mare di bottiglie di vetro e nel quarto è già in fondo al mare, muove le braccia come se stesse fluttuando, ormai abbandonata alle onde e al destino. Il testo poetico, composto dall’artista stessa, con prepotenza si impone alle nostre orecchie grazie all’uso sapiente della voce. Mi sarebbe piaciuto vedere di più ma forse, ancorandomi alla vista, avrei perso un pezzetto delle sensazioni che ho provato. Una considerazione finale la faccio lo stesso: la prossima volta metto i tacchi.
Antonia Liberto
Caro diario,
oggi ho assistito allo spettacolo di Tindaro Granata al Magnolfi. Io mostro – Esperimenti sociali in archivio è una performance che prevede due stanze, o meglio tre. A questo punto mi dirai: “sono tre o due?”. Nella realtà lo spazio è bipartito, ma nella concezione spettacolare è di fatto tripartito. La performance prevede lo spostamento di chi guarda nei tre luoghi. In principio mi trovavo in una stanza ai cui lati era disposto il pubblico, mentre al centro vi erano gli attori che interpretavano due personaggi (Rosa Bazzi e Olindo Romano). Una volta seduta mi sono ritrovata in un luogo pressoché buio, illuminato solo dalla luce di una TV che trasmetteva un programma con una cartomante. Spenta la televisione si accendono le luci e arriva una ragazza. Rosa, questo il suo nome, dice frasi scollegate. Hai presente quando pensi e ti vengono in mente talmente tante cose che non capisci quella che è arrivata per prima e quale per seconda?! Ecco, lei parlava proprio così. Pensieri, parole, atti, sentimenti e emozioni di Rosa sono diventati buio. Buio e tenebra sono calati fra di noi e sono diventati scenario di un omicidio atroce commesso da i due personaggi. Vuoi sapere cosa mi ha colpito di più? Sono rimasta folgorata dalla capacità dell’attrice di interiorizzare il personaggio: ci credeva, sembrava credere totalmente a quello che ha provato la “vera” Rosa. L’attrice, finito il primo quadro, tornava ad essere se stessa invitandoci a spostarci nell’altra stanza. Una volta giunti nella seconda stanza ci siamo trovati di fronte alla messa in scena di uno scherzo alla cartomante, la stessa che avevamo visto all'inizio dello spettacolo. Beh, che dire? Vedere una cartomante interpretata da un uomo è esilarante! Finito questo quadro siamo tornati nuovamente nella prima stanza, di fatto uno spazio scenico totalmente diverso. Ebbene sì, qui non c’era più i personaggi ma “solo” due attori intenti a dialogare. Ecco, se posso confessarti il mio punto di vista questa terza parte non funziona ancora del tutto. Rimanga fra noi ma si vede ancora troppo la fase dell’esperimento, si mostra il meccanismo con troppa semplicità, insomma si zoppica un po’. Io mostro rimane comunque una riflessione su come l’uomo possa diventare un mostro. I due artisti mettono in scena diversi gradi di mostruosità (prima e seconda stanza) e giungono in una zona franca (la terza camera) che di fatto non esiste nella realtà. La scelta come tema dello spettacolo. Tutti noi nel quotidiano ci troviamo di fronte a bivi che ci possono fare scegliere il diavolo invece che l’angelo. Il terzo luogo vive solo nel teatro perché diventa materializzazione di un concetto intangibile: la scelta appunto.
Alessia Ronge
[Prato, 27 settembre 2016]