Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Contemporanea Festival a Prato dal 23 settembre al 2 ottobre 2016
Licia Lanera mi accoglie in una delle cellette del Teatro Magnolfi, invitandomi a sedere sul letto con lei per parlare del suo nuovo progetto Soffro d'insonnia (riflessioni notturne su fiabe conosciute), pensato appositamente per questo spazio in occasione di Contemporanea 16. Mi giro attorno e realizzo di essere in una vera e propria camera da letto. Nella stanza ci sono un letto completo di cuscini, lenzuola e coperte, un comodino e una piccola libreria (ma l'arredamento, mi dice l'attrice, è ancora in via di definizione). La mia attenzione è però attirata dalle tante, bellissime scarpe rosse che sono sparse lungo il pavimento o fuoriescono da una grossa valigia posata a terra. «Per preparare questa performance, alla ricerca di scarpe rosse, ho scoperto di avere 64 paia di scarpe di cui 7,8 rosse» confessa Lanera. Soffro d'insonnia avrà luogo proprio qui a partire da un informale e divertente dialogo con gli spettatori, così com’è stato il mio, a tu per tu con l'attrice. Riportiamo l'esito della conversazione in forma di dichiarazioni dell'attrice e autrice barese.
Leggere una fiaba
Tutto ha avuto inizio con Licia legge le fiabe, un progetto appena cominciato che ho realizzato in tre luoghi e forme diversi, dove per 20-30 minuti leggevo delle fiabe a un numero preciso di spettatori sdraiati in un letto. A differenza di Soffro d’insonnia non c’era alcun oggetto di scena, ma già in quell’occasione ho iniziato a concentrarmi sullo studio della voce, esplorando questo strumento. Per il progetto ho collaborato con un musicista di Bari, Tommaso Danesi, "Qzerty", l’ho conosciuto mentre lavoravo su Orgia; lui ha composto le musiche e non potendo essere presente fisicamente ha registrato una traccia su nastro che qui mandiamo in loop. Il debutto vero e proprio avverrà nella primavera del 2017, l’idea finale è quella di uno spettacolo-concerto dal vivo, qualcosa di abbastanza rock ed elettronico. A Prato, data la natura del luogo e il fatto di esserci stata a dormire, mi piaceva l’idea di sfruttare l’ambiente delle stanze da letto. Ho pensato anche che il Magnolfi nel passato è stato un orfanotrofio e che Le Baccanti di Ronconi sono state ambientate qui, come fosse una sorta di ospedale psichiatrico. Per me questo è un luogo con un’eco particolare e visto che non si tratta di un teatro non avevo intenzione di farlo funzionare come tale. Volevo un’occasione di totale libertà, una condizione che accade raramente e che ho iniziato a sperimentare con Orgia.
Non dormire
Sono abituata a concepire interamente gli spettacoli, con Fibre Parallele scriviamo testi nostri e quando andiamo in scena è già il momento del debutto, al massimo possiamo fare delle anteprime ma non ci sono tappe intermedie. Quella di Prato è stata un’occasione per lasciare spazio alla mia parte autoriale. Nell'infinita quantità di fiabe lette ho scelto quelle a mio avviso più rappresentative: Cenerentola, Scarpette rosse (che ha una morale cattolica agghiacciante), La Sirenetta (altra fiaba straziante, non nella versione disneyana, qui io punterò un coltellaccio a due cm dal cuore dello spettatore) e Il pescatore e sua moglie (in cui c'è una donna che chiede sempre di più, non è mai contenta, e per la quale ho deciso di portare in scena un rombo vero, che ho da poco ordinato in pescheria). Queste fiabe, nella loro versione originale, sono molto crude e parlano dei diversi aspetti dell'umanità: la vendetta privata o divina, i vizi (come quello di comprarsi un gran numero di scarpe, ad esempio) e la loro punizione, la delusione d'amore, il suo strazio, fino a morirne. Ci sono tematiche che a me stanno particolarmente a cuore e mi piacciono per come sono raccontate... alcune descrizioni e particolari di certi mondi somigliano un po' al mio. All’inizio con gli spettatori parlo del tema della notte e dell'insonnia, perché da due-tre anni soffro veramente d'insonnia. E così di notte il mio cervello viaggia e arriva a mescolare elementi umani e fantastici, proprio come le fiabe che sto leggendo (e non sto sognando!). Poi passo a introdurre il tema della fiaba che andrò a raccontare. Ovviamente ne racconterò solo una piccola parte, in forma performativa, anche se avrei voluto prendermi un tempo maggiore. C'è certamente un margine d'incertezza e ciò mi diverte moltissimo, potrebbe diventare un disastro o potrei trovarmi davanti uno spettatore che nel momento in cui viene chiamato in causa vuole parlare e iniziare una lotta. Spero ci sia anche qualche ragazzino, mi piacerebbe, a Novoli ne ho intercettati alcuni e il confronto è stato molto divertente.
Suonare la voce
In realtà mi piacerebbe cantare, ma non essendo capace mi diverto a giocare con il microfono. Sulla voce lavoro ormai da anni, ho iniziato con lo spettacolo 2. (due), era un elemento della poetica di Fibre Parallele che ogni tanto veniva fuori, però il nostro lavoro si concentrava maggiormente sulla drammaturgia e sul racconto di storie, così non ho avuto molte occasioni per fermarmi e lavorare su tale aspetto. Nei miei due ultimi spettacoli, invece, anche in Orgia, dove sono da sola, sto esplorando molto il territorio della voce. Adesso l’uso della voce è per me preponderante, benché non venga mai meno il movimento, perché io sono tutta un movimento, non so stare ferma. Con le fiabe l’operazione drammaturgica sta proprio nell’uso e nella trasformazione della voce. Non si tratta solo di prestare la voce ai personaggi ma di ricreare anche i tanti suoni dello spazio che racconto: lamenti strazianti, urla soffocate (ogni volta che a qualcuno viene mozzata una parte del corpo!), i pianti, i baci che la Sirenetta manda al palazzo del padre, tutto amplificato all'inverosimile. Sono stata abbastanza fedele ai testi originali ma li ho infarciti di alcuni piccoli particolari splatter. Il suono della voce in una stanza è molto potente e con la musica crea un piccolo concerto, ecco perché vorrei che questo lavoro diventasse uno spettacolo musicale a tutti gli effetti. Quest’idea mi piace e il mio sogno sarebbe riuscire a farne un concerto per ragazzi da portare in giro nelle scuole, poi non so cosa succederà davvero.
Teatro, finzione e vita
Io sono molto spudorata a teatro, lo sono anche nella vita, ma in teatro ancora di più. Non mi riferisco solo al fatto che sul palco posso mettermi nuda, sputare, vomitare o fare delle scene hard, ma anche a quella possibile nudità che ti permette di stare veramente a cuore aperto. E che per me nella vita è difficile, nonostante il grande bisogno che avverto di comunicare con l’umanità. Da autrice ma anche da spettatrice prediligo il teatro che parla della vita. Quello che parla di sé stesso mi annoia parecchio, è solo per chi lo pratica, invece a me piace coinvolgere chi conduce una vita “normale”, che non ha che fare con il teatro 365 giorni l'anno. Guardo, sento ciò che c’è al di fuori e cerco di non farmi risucchiare da questo mestiere che è totalizzante. Ecco perché il rapporto con il pubblico per me è fondamentale. Pur avendo sempre chiara la dimensione della finzione (tutto ciò che attraversa la verità è sempre filtrato da una dose di finzione) la comunicazione con lo spettatore resta un mio cruccio.
Quando sono in scena non è assolutamente un problema raccontare ciò che mi riguarda, spesso parlo del mio vissuto attraverso un personaggio e cerco sempre un archetipo, una storia paradigmatica che possa appartenere a chiunque. Le fiabe si prestano tantissimo a questo lavoro, perché sono di dominio comune. Ad esempio io stessa sono quasi morta - infinite volte - per amore, proprio come La Sirenetta. La mia storia però non sta tanto nella fiaba in sé quanto nella temperatura che trasmetto allo spettatore attraverso il racconto. Il patto che riguarda il meccanismo della finzione in teatro mi affascina molto: io ti svelo che è tutto finto ma tu ci credi comunque, perché lo è a tal punto da sembrare vero. Ti faccio vedere il sangue artificiale della scarpa di Cenerentola, magari anche la provenienza dal vasetto in cui lo conservo, un vasetto che mi ha dato mia madre, ma tu spettatore sei calato in un’atmosfera tale, e io ti trasmetto tutto il mio strazio con un tale urlo, che alla fine tu ci credi davvero... anche se lo dichiaro finto e non lo fingo vero come fa il cinema. È un gioco tra me e lo spettatore, l'amore più bello che possiamo fare e la meraviglia del teatro. Questo rapporto di verità, che pure non è realtà, questo per me è il rapporto tra teatro e finzione.
Essere un’attrice-autrice oggi
Oltre a una questione estetica e performativa, le ragioni per cui faccio questo lavoro sono principalmente due: l’aspetto autoriale, che per me è una dimensione primaria, un atto privato attraverso cui “sfogo” tutti i miei movimenti interiorial di là del fatto che ci sia o meno un testo scritto da me (anche se curo la regia lascio segni così forti che è come se riscrivessi il testo di partenza); e l’aspetto o atto politico. Quando parlo di teatro politico mi riferisco alla polis, a ciò che accade all’uomo e che lo riguarda. Questi due aspetti si intrecciano e danno senso al mio teatro, fanno sì che esista. In Soffro d’insonnia infatti lo spettatore può ritrovare l’umanità e i propri vizi. Non riesco a trovare un'altra possibilità. Oggi il teatro ha bisogno di essere fortemente comunicativo, se vogliamo giocare solo sul suo aspetto accattivante perdiamo contro tutto: il cinema, la partita di calcio, la pizza, Youporn. La tecnologia ci ha abituati a un altro tipo di velocità, ma il teatro ha un potere che non ha pari: mette in connessione fra loro le persone, qualcosa di raro e di fortissimo in un momento di isolamento come quello attuale. Aggancia fra loro gli esseri umani e ti àncora non fisicamente ma attraverso altri sensi a chi stai guardando, a chi ti siede accanto in platea. Questo però non avviene se chi lo fa non ha qualcosa di importante da raccontare, una necessità. Al di là del gusto e della forma (io per esempio sono una grande amante dei classici anche se vengo da una compagnia che scrive i propri spettacoli) penso che alla base debba esserci sempre un’urgenza. Oggi però il teatro di ricerca soffre come quello classico dei “parrucconi” e, a volte, pecca degli stessi errori, pensando che ricerca voglia dire semplicemente studio. Invece secondo me prima di tutto vuol dire cercare. Io mi interrogo di continuo su come il mio studio e la mia ricerca possano essere tradotti per arrivare allo spettatore nel migliore dei modi. Questo significa anche che non vado in scena con una bozza del lavoro, ma mi adopero affinché qualcosa possa accadere. C’è anche chi sposa solo il divertimento, ma questa è una via che possiamo benissimo lasciare ai mattatori e ai musical. In passato un certo teatro di ricerca, sovvenzionato, poteva anche permettersi di avere le sale vuote, diversamente da oggi, dove chi ricercava trent’anni fa oggi è direttore e magari contribuisce alla rovina del teatro italiano con rigurgiti rivoluzionari e idee artistiche moribonde. I nostri padri ci hanno lasciato le sale vuote e a noi, generazione dell'anno zero, è toccato fare spettacoli lavorando sul pop nel senso di popolare, per aprirci e per guadagnarci nuovamente un pubblico. Secondo me questa è una riconnessione importante di cui tener conto, sicuramente riguarda la mia idea di teatro e per me è l'unico modo che abbiamo per fare teatro. Detto questo penso anche che il teatro non morirà mai, è nato con l'uomo e con l'uomo morirà e tale considerazione è valida soprattutto in un periodo come il nostro, in cui la gente ha bisogno di ritrovare “l'umanità”. Lo percepisco anche nei laboratori che conduco. L'alienazione è totale, il lavoro è continuo... cosa c'è di meglio del teatro? «Il teatro è una benedizione per tutti» diceva Bernhard e questa costante connessione con le persone è anche la mia salvezza.
La passione per il teatro
I miei genitori da bambina mi portavano spesso a teatro e a me piaceva tantissimo. A casa avevamo tutti i VHS di Eduardo, mi faceva morire dal ridere Natale in casa Cupiello, soprattutto quando arrivava la battuta di Luca Cupiello/Eduardo: «Fa freddo fuori?»... ne ero affascinata! A livello pratico ho incontrato nuovamente il teatro al quarto-quinto anno delle superiori, anche se già alle medie avevo scritto una pièce teatrale di fine anno con un numero di personaggi pari a quello dei miei compagni di classe e l’avevo messa in scena in via del tutto autonoma, avevo la chiara idea di fare la regista da grande. Un desiderio che è rimasto latente fino ai 17 anni, quando ho iniziato a collaborare con varie compagnie amatoriali, e fino alla vera rivoluzione del Centro Universitario Teatrale dove ho conosciuto Riccardo Spagnulo. Lì ci siamo innamorati del teatro e l’uno dell'altra. Questo ha generato qualcosa di meraviglioso. Insieme abbiamo fatto provini nelle scuole, che sono andati male, ne siamo stati cacciati e a un certo punto abbiamo preso la decisione di fondare una compagnia. Quando si è rotta la nostra relazione privata - poi purtroppo anche quella lavorativa - c’è stato un momento in cui ho pensato di non esistere teatralmente senza di lui. Mi sono tanto interrogata in questi anni, ho fatto un percorso a ritroso della mia vita e ho capito che il teatro in realtà esisteva già dentro di me molto tempo prima di incontrarlo, il teatro è qualcosa che mi è sempre appartenuto e che ho solo cercato di ritrovare. Poi ho fatto Orgia. Ho realizzato che per me il teatro è una questione di fede, ci credi a prescindere, è come prendere i voti, è un amore smisurato, assoluto. Penso che questo valga anche per i critici e gli organizzatori. Il teatro si sostituisce alla vita e te la chiede in cambio, come disse Eduardo De Filippo alla sua ultima premiazione a Taormina: «Sono nati i figli e non me ne sono accorto». Per le donne di teatro è ancora più difficile. È una scelta radicale.
A cura di Ilenia Vecchio