INTERVISTE > Rodrigo Garcia: il mio teatro sul mondo
Stiamo ponendo la stessa domanda a tutti i gruppi ospitati da Contemporanea. Vuoi dirci cosa pensi del teatro del presente e cosa ti aspetti dal teatro del futuro?
Beh, ogni artista è un caso a sé. A me non piace parlare in termini generali del teatro, io non saprei dire cos’è ‘il teatro’. In linea di massima sarei pessimista. Per me è come un gran supermercato in cui ogni artista fa parte di uno scompartimento e m’immagino che ognuno nei propri prodotti instilli un po’ di veleno per non vedere cose sempre buone e sane. Però davvero non riesco a parlare del futuro del teatro in generale.
E per quanto riguarda il ‘tuo’ teatro?
Non saprei, è difficile, non riesco a distinguere. Il teatro è una cosa così ampia: c’è chi lo fa per divertire, chi per intrattenere… io faccio ‘resistenza’ e intendo mostrare la realtà con un’ottica differente da come ne parla la televisione, coi sui annunci, pubblicità, etc…
Vedi un futuro per lo spettacolo dal vivo?
Sì, ha un futuro perché c’è gente che ha il denaro per pagare il biglietto, i borghesi, come noi, che non hanno problemi e possono continuare ad alimentare questa macchina. Però il teatro che intendo fare è un teatro che faccia sentire scomoda la gente. Noi abbiamo già benessere e intrattenimento, non è questo che voglio dare alla gente. Io cerco una forma reale, non come quella sovrabbondante in cui viviamo, noi abbiamo troppo denaro e continueremo a stare sempre meglio in una falsa libertà che non esiste. Questo è un momento in cui non ho fiducia nel potere comunicativo che ha il teatro, continuo a lavorare perché è necessario coltivare le utopie, però non sono molto ottimista. Il pubblico che viene a vedere le mie opere non mi piace, non ci si può aspettare molto da loro. Io non lavo le coscienze degli spettatori. Spero anzi che quando tornano a casa dormano male. Ma è difficile. Non so se si possono cambiare le cose con il teatro… soprattutto perché le persone che lo seguono sono pochissime. Avrei raggiunto un buon risultato se riuscissi a creare almeno un po’ di confusione, se facessi capire attraverso le mie opere che non tutto è così facile e etichettato come vogliono farci credere. Sarebbe bello che gli spettatori uscissero dai miei lavori rendendosi conto che indossano tutti le stesse magliette.
Guardando i casi più eclatanti di teatro politico del passato, possiamo individuare un bivio nella carriera degli artisti che intraprendono questa strada. Il livello di coinvolgimento nei problemi sociali si spinge talmente a fondo da costringere i teatranti a scegliere fra l’attività politica, l’intervento diretto, o il rifugio nell’isola dell’arte. Tu hai mai pensato di smettere di fare teatro e di impegnarti in maniera diretta?
Ho riflettuto spesso a questa domanda. Il mio lavoro deve avere una forte carica politica, ma non bisogna dimenticarsi che rimane sempre su un piano estetico. Dunque, io parto sempre dalla politica ma per sfociare nella poetica. Se verrà un momento in cui mi renderò conto che fare teatro è totalmente inutile allora smetterò di sicuro. Al giorno d’oggi fare poesia è un atto politico, perché significa offrire alla gente ciò che la televisione e la società non vogliono censurano. Oggi il modo migliore di fare politica è fare poetiche. Le mie opere hanno raggiunto una chiarezza e una evidenza sempre più nette: i miei ultimi lavori espongono delle tesi in modo diretto. In questo ultimo periodo mi sto invece convincendo che occorre essere più evocativi, più ambigui. Bisogna tentare di recuperare la poesia per evitare che le persone perdano ogni consistenza.
Ci vuoi dire qualcosa sul tormentato rapporto col cibo evidente in tutti i tuoi spettacoli?
Il cibo è un simbolo di quello che siamo. Fast food, hamburger e tutta l’altra merda rappresentano il nostro modo di vivere, la nostra perdita di valori, oltre che la colonizzazione americana. I bambini di oggi rischiano di credere che il latte non venga dalla mucca, ma da un cartone. Stiamo perdendo il contatto con la realtà. All’inizio usavo il cibo perché mi piaceva cucinarlo in scena, mi affascinavano i tempi meticolosi che richiede un buon piatto. Poi mi sono reso conto che era un discorso stupido: ho passato metà della mia vita in Argentina, dove la gente muore di fame, e l’altra metà in Spagna, dove ci si permette di buttare gli avanzi. Ho messo questa disparità al centro dei miei spettacoli. Il mio teatro si basa su quello che accade oggi nel mondo. Non mi interessa sapere se fra cento anni le mie opere saranno ancora lette o rappresentate. Ecco perché alle domande che mi avete fatto sul futuro non so trovare una risposta precisa.
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