L’Alveare Giovani presenta progetti piuttosto diversificati tra loro, spie di percorsi molteplici. Il tuo lavoro, ad esempio, ha un forte impatto visiva. Qual è la tua formazione?
Sono un autodidatta. Non credo che il mio lavoro possa essere inserito in una categoria. Lavoro con il video, la fotografia, creo installazioni e azioni brevi. Il mio percorso è iniziato tre, quattro anni fa realizzando performance, mai in teatro e mai di lunga durata. Adesso sto seguendo una linea di ricerca che vede coinvolto un solo spettatore.
Non penso di rappresentare niente, lo spettatore per me è l’unico performer perché cambia. È solo l’attore rimane identico. Anche con uno spettatore alla volta il lavoro cambia sempre. Rimane uguale la forma, l’installazione performativa.
Time is like a bullet from behind è il nuovo lavoro che presenti a Contemporanea05. Dura un minuto e lo spettatore è accolto all’interno di una vera e propria installazione. Lo spettatore in qualche modo viene lasciato libero?
Sembra libero, in realtà non lo è mai. Sa sempre esattamente cosa fare. A parte i casi limiti. La cosa curiosa è che qualcuno non è riuscito a trovare facilmente le “entrate” e le “uscite”giuste.
Questo lavoro sembra avere non pochi legami con un certo immaginario di film horror…
Non voglio spaventare nessuno, per me è un gioco. Quello che mi interessa è fondere più cose, spazi diversi. Nel mio lavoro, tutto parte da immagini cinematografiche. Anche Time
Lavori sempre con format brevi. Nessun minimalismo ma un forte senso di “spettacolo”…
A volte un minuto dura più di un’ora. Credo che, nell’immaginario dello spettatore, possa restare impresso più la forza di una visione che la lunghezza di una rappresentazione. D’altronde siamo circondati dalle immagini, soprattutto quelle della televisione e del cinema, e di solito non resta niente. Perché è un flusso continuo…
Anche se la televisione lavora con tempi brevi, pensiamo alla pubblicità, agli spot, forse il discrimine sta nel fatto che tu lavori comunque dentro l’involucro spettacolare, mantieni intatta una dimensione “teatrale”…
Ho messo lo spettatore volutamente in questa dimensione teatrale. Ma non voglio sapere in anticipo che cosa possa accadergli. C’è un’entrata e un’uscita. Poi lo spettatore lavora tra questi estremi in modo intimo. La mia visione ha a che fare con la non-rappresentazione, mentre il teatro vuole sempre rappresentare qualcosa. È forse per questo che ha dei tempi più lunghi.
Pensare al futuro. Avrà ancora senso lo spettacolo dal vivo?
Non mi pongo troppe domande sul futuro. Il teatro come luogo, come status credo che stia perdendo di senso. Trovo che l’unico futuro per lo spettacolo dal vivo sia quello che mette al centro lo spettatore, ne indaga le tipologie (fruitore di moda, di arte, di televisione). Secondo me non bisogna fare un teatro per pochi. Non guardiamo dall’alto le riviste di moda o la televisione perché andiamo a teatro. Anche queste cose fanno parte di noi.
parte da una visione. Per me è naturale lavorare così. È come nei film dell’orrore, il protagonista lo segui da dietro. Sono partito da lì, poi ho cercato quei film che mi spaventano e mi inquietano profondamente. Il lavoro di quest’anno si ispira a David Lynch, in realtà è basato soprattutto sui ricordi che io avevo dei suoi film, del suo tempo non lineare. Credo nella forza di lasciare delle immagini impresse nella mente.
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