Linea verde, prima stazione: incontrare Open e i suoi esperimenti volumetrici.
Spazi e corpi per amplificare la mancanza di visione.
Conversazione con OPENVolume: Silvano Voltolina, Silvia Calderoni, Valeria Di Modica, Davide Savorani, Muna Mussie e Luca Mattei, Nico Vascellari.
Comincerei chiedendovi di spiegare da dove nasce il progetto Volume. Quale idea di volume è sottesa alle performance che proponete a Contemporanea?
Il concetto di ‘volume’ si compone in due articolazioni: la volumetria dello spazio e dei corpi e la sostanza sonora che li invade. Il lavoro parte dall’analisi di uno spazio preciso che ci è stato dedicato, e dalla scomposizione di tutti i tipi di volume che sarebbero entrati in gioco: i corpi, lo spazio, il pubblico.
Inoltre, c’è la volontà di confrontarsi con alcuni ‘professionisti del volume’: Nico Vascellari, per esempio, ci segue e ci affianca nella maggior parte del percorso qui a Prato.
Affrontiamo il discorso sul pubblico. Aprire il vostro lavoro è una condizione fondante del progetto Open? Ci sono situazioni in cui non ne avvertite l’esigenza?
Il progetto Open possiede una sua esistenza autonoma in veste di incontri al chiuso tra i vari componenti. Nonostante questo, abbiamo sempre tenuto in considerazione l’elemento pubblico.
Per fare un esempio, quando siamo stati invitati da RAUM (Bologna, ndr) per Open B nel 2003, i nostri spostamenti erano calibrati in base alla posizione degli spettatori. Il pubblico, in quel caso, diveniva un oggetto che interferiva sull’azione scenica. Nell’apertura di ieri sera (lunedì 30 maggio, n.d.r) le azioni erano dislocate in due stanze diverse: chi assisteva da una parte era impossibilitato a vedere ciò che accadeva nell’altra.
A questo proposito: nell’ottundere una parte della visione c’è la volontà di stimolare una percezione qualitativamente più intensa?
Il termine esatto è amplificazione. Non solo dello sguardo, ma di tutte le componenti percettive. Amplificare la mancanza di una visione, di un ascolto. Quando viene sottratto qualcosa è necessario sforzarsi, acuire l’attenzione, se si vuole recuperare: il pubblico lavora aggiungendo dati personali ai ‘buchi’ che lasciamo sul terreno.
Si può parlare di un preciso disegno per sensibilizzare lo spettatore verso formati di fruizione diversi rispetto ai ‘pacchetti’ che propongono i teatri?
No, non c’è una volontà di fondo che va in questa direzione. Non abbiamo nessuna velleità educativa. Tutto dipende dal singolo progetto in cui interveniamo, dove è possibile che si presenti, fra le altre cose, anche l’aspetto di cui tu parli.
Inoltre, non ci contrapponiamo per principio a delle modalità di visione standard. Tutto nasce dal rapporto diretto con il luogo che ci ospita, che di solito è molto caratterizzato e particolare, e non sempre ‘fisico’. Abbiamo lavorato su formati eterogenei, pubblicando un intervista su Art’ò (Open 19x21) o producendo una t-shirt per il Festival di Santarcangelo. A Prato abbiamo deciso di fare i conti con formati sonori: oltre che con Nico e con Luca Mattei, lavoreremo con Ruri Ogata e con Massimo Carozzi, una cantante lirica e un sound designer.
Non credete che il tentativo di ampliare la percezione dei vostri spettatori possa tramutarsi in una privazione di ogni punto di riferimento? Non si corre il rischio di lasciare il pubblico in balia di un evento che non riesce a riconoscere?
Il pubblico che abbiamo incontrato, in questi anni di lavoro, si è sintonizzato su due opposte reazioni: una molto vicina e sensibile, l’altra totalmente lontana. Da una forte emozione passiamo direttamente al rigetto, senza mai avere incontrato l’indifferenza come tappa intermedia.
Come riuscite a fare coesistere le tante individualità che vi caratterizzano? E come vi siete rapportati nei confronti dell’intrusione di elementi esterni come Nico Vascellari?
Il termine ‘intruso’, forse, non è totalmente corretto. La modalità di Open accoglie e abbraccia ogni membro esterno. Ogni componente, che faccia parte o meno di Open, possiede una propria autonomia, che si inserisce nel lavoro collettivo. È inevitabile che, nei risultati spettacolari, si formino ruvidezze e ‘grumi’. Ma sono messi in preventivo o addirittura accolti con favore. Se la superficie è meno levigata si avrà una percezione più profonda di quello che avviene.
Per quanto riguarda le singolarità delle persone che coesistono all’interno di Open, si può parlare di addizione, non tanto di amalgama unitario. Ognuno interviene con le proprie competenze. È una somma che non arriva a un totale definito. Infatti, anche la sottrazione e la moltiplicazione fanno parte delle nostre modalità operative. Ragionare in termini di procedimenti matematici appartiene al nostro codice.
Mi pare che utilizziate molto lo scambio e il confronto con le altre arti... C’è un punto di partenza condiviso nella scelta dei materiali ‘altri’ con cui vi confrontate?
Ci sono persone e sensibilità che ci stanno a cuore e con le quali ci interessa confrontarci. Non partiamo da particolari fascinazioni comuni. Piuttosto, lavoriamo con ‘alfabeti’ diversi che si rapportano con i linguaggi già eterogenei presenti al nostro interno. L’esperimento fatto a RAUM con Michele di Stefano, degli MK, è un esempio in questa direzione.
Avverto forte in voi la volontà di non definirvi. Correggetemi se sbaglio: evitate accuratamente di considerare le tappe precedenti del vostro percorso come una personale tradizione alla quale rifarvi, in modo da ripartire sempre da zero. Non correte il rischio, così facendo, di disperdere una memoria e una consapevolezza del bagaglio acquisito negli anni?
La memoria dei precedenti lavori, forse, non è chiaramente ravvisabile nelle tappe di apertura fin qui svolte. Ma gli esiti di OpenVolume, dall’interno, dimostrano il contrario: nelle discussioni e nel confronto che c’è stato qui a Contemporanea siamo più volte tornati alle nostre attività precedenti. Ci è divenuta chiara l’importanza imprescindibile dell’esperienza acquisita nel percorso degli anni passati.
Open nasce come un luogo, un’occasione, un ‘materiale’ di studio. Lo scopo di Open è proprio una germinazione di idee e formati. La sedimentazione degli incontri passati e degli esiti ai quali siamo giunti è cucita sui nostri corpi e, a ben guardare, si palesa anche nelle aperture al pubblico. Grazie agli scambi e agli incroci che si sono realizzati qui a Prato abbiamo verificato il valore ‘carsico’ del nostro bagaglio comune.
Il vostro modo di porvi nell’ambiente delle arti dal vivo odierno vi pone a cavallo fra le etichette e le classificazioni. Dato che quello che non è riconducibile a definizioni rassicuranti viene, solitamente, messo da parte, avete avuto qualche difficoltà a farvi accettare in quanto insieme di persone legate da un progetto comune?
A questa domanda rispondiamo di no. A monte delle nostre collaborazioni c’è sempre stata una riflessione e una condivisione di intenti con i nostri ospiti. Le ambiguità nascono quando non c’è un’elaborazione comune con le strutture (festival e altro) che ti chiamano per intervenire. Questo, fortunatamente, non è stato il nostro caso.
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