Avremo ancora bisogno tra venti o trent’anni del teatro?
Kinkaleri. Non so rispondere. In Italia ogni lavoro ha breve respiro perché mancano gli spazi e questo rende strutturalmente difficile immaginare progetti a lungo termine. Se il teatro deve morire che muoia. La ricerca di mezzi per comunicare andrà avanti, ma non so in quale direzione. Il teatro è l’unica cosa che oggi ha ancora la sua potenza, probabilmente per il fatto che è un luogo in cui la presenza fisica è fondamentale. Non so quanto in futuro riuscirà a trovare quello spazio che in realtà non ha mai avuto.
Lo Cascio. Il teatro non è luogo del contatto, della comunicazione. Oggi, non potendo competere né con i grandi del passato, né con il cinema, immagino che il teatro potrà competere solo se si fonderà sulla ‘sensazione’, sul contagio immediato tra attore e pubblico.
Penso che sia il teatro che il cinema abbiano bisogno di morire per rigenerarsi. Tranne rare eccezioni, entrambi sono in una fase di collasso, di coma. Per rivitalizzarsi, piuttosto che mantenere uno stato vegetativo, forse bisognerebbe azzerare tutto e creare germi di rinascita.
Alessandro Fantechi. Mi occupo ormai da molti anni del cosiddetto ‘teatro sociale’ e credo che proprio questo sia uno degli ambiti entro il quale poter rifondare un senso odierno di teatro. Ma non l’unico! Dietro a tutte le esperienze più note di teatro sociale (penso a Delbono o alla Compagnia della Fortezza, per fare due nomi conosciuti…) ci sono grosse professionalità che guidano i ‘diversi’ facendoli diventare teatranti di professione. Se dovessi individuare, tuttavia, il valore aggiunto, direi che il teatro sociale abbatte la distanza tra pubblico e attori, recupera un rapporto diretto con le persone. Gli spettatori si commuovono, partecipano, è come se conoscessero tutte le storie personali degli ‘attori non-attori’. È forse un possibile ritorno al concetto di comunità.
Del teatro di oggi cosa resterà? Diventerà repertorio o la ricerca sperimentale di questi anni verrà azzerata?
Lo Cascio. È impossibile prevedere, ma credo comunque che non dovremmo dimenticarci mai della tradizione. Come possiamo fare a meno di Shakespeare, Pirandello o della tragedia greca e di Beckett? La parola è fondamentale e sono convinto che il testo non sia affatto nemico del teatro. Anche Carmelo Bene lo amputa, lo manipola, eppure la tradizione rimane un suo punto di riferimento. Credo davvero che il testo resti imprescindibile.
Kinkaleri. È molto difficile pensare al futuro. Non credo in nessuna delle due prospettive. Penso piuttosto che le prossime generazioni assimileranno e metabolizzeranno alcuni elementi. Molte cose su cui oggi riflettiamo probabilmente verranno date per scontate. La ricerca verrà assorbita anche se ovviamente troverà altre forme per realizzarsi.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a un processo di crescente minimalismo. Abbiamo tolto sempre di più e forse presto sentiremo la necessità di aggiungere. È un processo ciclico e forse il lavoro di questi anni verrà inserito in una particolare fase di sperimentalismo.