Rezza e Mastrella sono un caso a parte, a parte nel teatro, a parte nel cinema, probabilmente a parte anche nel mondo reale. Quel che è certo, è che questo a parte è sempre artisticamente, poeticamente e politicamente il loro personalissimo a parte. Comici, cinici, taglienti, sprezzanti, spavaldi, immodesti, autarchici, anarchici, pericolosi, ribelli, due così non possono che rifiutare qualsiasi etichetta: soprattutto perché incapace di esprimere quel tratto di profonda, virtuosa, superiore, naturale umanità con cui innaffiano se stessi e coloro cui capita di incontrarli.
Per voi che vi definite i più grandi artisti morenti, come pensate che sarà il teatro del futuro?
Antonio Rezza: A me il teatro del futuro degli altri interessa poco, comunque non credo ci siano molte speranze.
Flavia Mastrella: Il teatro è formato da dinosauri, non c’è vitalità, c’è una mentalità troppo aziendale.
R. Per far vivere l’arte bisognerebbe affrancarsi dal contributo, cioè dal controllo, dello stato.
Il problema del teatro è quindi un problema economico?
R. Non è solo economico, è che non puoi avere uno spazio se non sei protetto dallo stato, se non fai quello che lo stato vuole. Questi giovani si dovrebbero unire in corporazioni sovversive che possano sfuggire al controllo economico.
M. Non avendo lo spazio non possono sperimentare. Se noi non avessimo avuto un metodo particolare, quando eravamo giovani…
R. Siamo ancora giovani!
M. …ci siamo inventati spettacoli nelle gallerie d’arte, nelle discoteche, perché il nostro lavoro non poteva andare a teatro, perché il teatro aveva i canoni degli anni settanta, che in buona parte sono ancora gli stessi, e per noi non c’era spazio.
C’è chi parla di voi intravedendo nel vostro lavoro le tracce di Artaud o Carmelo Bene…
R. Non so chi l’abbia detto, ma noi siamo un genere, siamo il nostro genere. Non è detto che fare o dire cose che sono già state dette equivalga a raccogliere un eredità, sicuramente fa piacere essere accostati a personaggi illustri, ma io non ho studiato Artaud. L’onnipotenza non l’hanno inventata né Artaud né Pasolini né Carmelo Bene, l’onnipotenza è un questione di geni.
Quindi voi siete onnipotenti?
R. Certo io sono onnipotente. Siamo onnipotenti, nel nostro lavoro facciamo ogni cosa che vogliamo fare.
M. Io mi sento un extratterestre!
R.Lei è più modesta di me.
M. Mi sento marziana nel mondo, nell’arte. Io non sono una scenografa, sono un’artista che crea degli spazi che poi do a Antonio e lui li usa. Noi abbiamo abbattuto l’aspetto del lavoro gerarchico, è questa la nostra novità.
R. Dal nostro lavoro può sembrare che Flavia costruisca le sue sculture sulla base di un testo affinché io le possa usare in un determinato modo, ma non è così. Questo i critici non riescono a capirlo.
E il pubblico?
M. La gente sì, la gente sente, perché è sempre una questione di comunicazione, noi siamo due persone che comunicano con forza, con prepotenza: io attraverso la forma, lui attraverso la parola e il corpo, e questo arriva alla gente.
R. Il pubblico è superiore alla critica perché paga per fare il suo lavoro; quello del pubblico è un lavoro come quello del critico, quindi anche il critico dovrebbe pagare per farlo, invece viene pagato.
Anche voi però venite pagati…
R. Noi veniamo pagati perché, come si dice volgarmente, offriamo un servizio.
A proposito di servizio, secondo voi a chi e a cosa serve il teatro e l’arte in generale?
R. Sono convinto che ogni forma d’arte serva principalmente all’artista per non sopprimersi, se poi serva anche al pubblico non lo so.
Sembra che vi divertiate molto nel fare il vostro lavoro.
M. E’ vero, ma non dirlo a nessuno, diamo fastidio proprio perché ci divertiamo a fare quello che facciamo.
R. Questo divertimento è la punizione che ci infliggiamo, non è detto che sia un privilegio, magari è frutto di una sofferenza che viene scavalcata dal divertimento. È un modo per sganciarsi dalla miseria della vita reale, per questo facciamo cose non reali. C’è un rifiuto fisiologico, epidermico, non snobistico nei confronti della realtà.
M. E’ l’unico punto in comune profondo tra noi due.
Il vostro spettacolo per Contemporanea lo vedremo qui al Metastasio, in un teatro storico all’italiana, mentre molti degli spettacoli in cartellone si terranno in spazi più moderni come il Fabbricone o gli ex-macelli. Che ne pensate?
M. Fotofinish è uno spettacolo adattabile a tutti gli spazi, l’abbiamo fatto anche in spazi enormi.
R. Noi siamo pronti a farlo negli stadi perché l’energia si propaga indipendentemente da quanto stai lontano dall’attore che agisce, ma è giusto che lo facciamo anche in un posto bello come il Metastasio, perché l’arte bella deve essere fatta in posti belli. Dobbiamo con la violenza, con la forza (e non parlo in modo metaforico) liberare gli spazi belli dalle cose brutte. Mentre la tendenza generale è di tenere basso il livello dell’arte per far assopire le coscienze.
M. Noi lavoriamo molto sui contrasti. In base allo spazio Fotofinish cambia, si rinnova e questo per noi è molto divertente.
Quanto c’è di improvvisato nel vostro spettcolo?
R. Fotofinish in realtà è uno spettacolo molto rigido, ma una volta che sai di essere bravo a improvvisare il gioco non è tanto nell’improvvisare le battute o le azioni, ma nel giocare sul ritmo. Per questo noi siamo più vicini alla musica che al teatro o al cinema.
M. Noi apprezziamo la mobilità delle cose… e anche la nostra.
COMPAGNIE