Contemporanea è un festival che cerca di avere un occhio fisso sul presente e uno sul futuro. Ma progettare, prevedere, annusare quali saranno i cambiamenti nei prossimi anni è sempre più difficile. Secondo te tra venti, trent'anni avremo ancora bisogno del teatro?
Non se se abbiamo o se avremo bisogno del teatro. Bisogna anche intendersi di quale teatro parliamo. Se pensiamo al teatro tradizionale o tradizionalista, allora ha ragione Romeo Castellucci quando afferma che mai come in quest'epoca viviamo un clima di conservazione. Il teatro è un esempio lampante perché il teatro continua a rappresentare ciò che è già stato. Anche se per certi aspetti penso sia naturale continuare in qualche modo a richiamare costantemente una dimensione passata. Riscrivere e re-interpretare può derivare dalla necessità di cercare qualcos'altro.
Siamo in una situazione di collasso, forse già conclamata, ma non la vogliamo vedere. Il teatro ce lo ricorda continuamente, anche nella sua parte peggiore, nella sua parte più tradizionalista.
Come direttore di un festival penso e spero che continuerò a pensare con la testa sempre rivolta al futuro e non al passato. Non posso fare altrimenti, è la mia necessità che deriva ovviamente da una mia formazione personale, ma anche dal fatto che ho sempre attribuito al festival un ruolo di eccellenza, ovvero un luogo di incontro, un coagulo di idee e pensieri. Dove è possibile scoprire gruppi nuovi, dove avere conferme e crisi, intuizioni e messe in discussione.
Il festival è una condizione estiva, dove gli artisti e il pubblico e gli operatori si incontrano. Se questo è quello che penso debba essere un festival, nel momento in cui ho pensato a un appuntamento biennale, ho puntato a un progetto che mantenesse questa tensione. Si tratta di un lavoro molto difficile, soprattutto riuscire a tenere insieme percorsi e progetti differenti.
In generale il festival ha sempre avuto una funzione propulsiva: mettere insieme gruppi, artisti, che poi avevano una distribuzione nazionale. Oggi sembra che i festival siano sempre di più un circuito alternativo e non più propulsivo alle stagione dei teatri…
Per quanto è successo e succede per la generazione Novanta i festival è diventato sempre di più un circuito alternativo. Le grandi strutture teatrali non riescono più a osservare e ospitare produzione di gruppi che dagli anni novanta in poi ha proposto lavori legati a estetiche e linguaggi contemporanei. Siamo un paese tradizionalista e conservatore e le grandi strutture teatrali che hanno una forte relazione con la politica, con il pubblico, con tutto un meccanismo di distribuzione, non riescono a guardare avanti.
I festival non sono più festival, ma nel migliore dei casi dei progetti estivi che continuano a osservare le nuove generazioni. Poi c'è tutto il problema delle direzioni artistiche, nel nostro paese ci scambiamo sempre di più i ruoli: registi e critici che fanno i direttori artistici. Non do un giudizio di merito a tutto questo fenomeno, dico soltanto che non credo si possa passare da un ruolo a un altro senza aver attraversato delle funzioni, delle esperienze. Dovremmo fare delle discussioni molto serie su questo argomento. Bisognerebbe parlar fuori dai denti. Liberiamoci dagli steccati, ma tornando a un festival che sia mosso dalla necessità di un teatro del futuro. Inoltre credo che sia più corretto dire "curatore" di un festival piuttosto che "direttore", recuperando una terminologia dell'arte contemporanea. Come le mostre sono "curate da" così dovrebbe essere anche per i festival. Mi sembra un termine molto più pertinente per indicare una persona che segue, che dà spazio ai percorsi degli artisti.
Paese tradizionalista e conservatore, eppure bisognerebbe riflettere su cosa significhi "tradizione". Gruppi che hanno almeno vent'anni di lavoro alle spalle - penso ad esempio alla Socìetas Raffaello Sanzio - con lavori che sono per molti pietre miliari nella riflessione sul contemporaneo, non sono diventati probabilmente tradizione. Secondo te i gruppi degli anni novanta tra dieci o vent'anni saranno tradizione o si procederà sempre di più per azzeramenti temporali?
Credo che questa sia davvero la domanda centrale. La domanda che ci rivolgeremo anche nelle sessioni di lavoro a porte chiuse che abbiamo previsto all'interno del festival. Capire se tutto quello che sosteniamo, gli artisti, le opere, i linguaggi si trasformeranno un domani in tradizione. Cercare cioè di capire se il processo passa ancora da una fase di innovazione a una di tradizione o se il meccanismo è cambiato. E la domanda non è rivolta solo all'oggi, ma diciamo che la possiamo porre dagli anni sessanta in poi. Occorre chiedersi allora se quel grande movimento di sperimentazione ha prodotto dei linguaggi che sono a loro volta diventati tradizione, cioè se in qualche modo sono diventati linguaggi "popolari". E se questo è accaduto, domandiamoci se è servito a trasformare la nostra visione della realtà e la nostra visione del teatro.
Da parer mio non credo che esista un processo che non abbia un sviluppo continuo nel tempo, credo che vi possa essere una continuità nelle esperienze e nei percorsi degli artisti, altrimenti non farei più quello che sto facendo adesso. Fino a che ci sarà un artista che avrà urgenza e necessità di esprimersi attraverso l'universo-mondo del teatro, credo che il teatro continuerà ad esistere e di questo ne sono sicuro, oggi come ieri, come tra trent'anni. Su quanto poi un lavoro di eccellenza sia riconosciuto all'interno di una comunità, ho molti più dubbi…
… il problema forse è capire su quale sia la comunità in cui l'artista lascia delle tracce…
Esattamente… è la comunità che fa tradizione. Proviamo a porci una domanda: la Socìetas Raffaello Sanzio è un teatro "popolare"? Io penso di sì. Intendiamoci, popolare non populista, nel senso che una comunità, grande o piccola, si riconosce nel loro linguaggio, è, come dire, attraversata e contaminata da una particolare visione del mondo.
Quanti sono gli spettatori che si muovono per vedere la Socìetas Raffaello Sanzio? Forse sono davvero una comunità, piccola ma una comunità. O per esempio quante sono le persone che si riconoscono nelle frequenze visive, gestuali, musicali dei Kinkaleri? Credo che molti si riconoscono in quel particolare codice, simili per affinità…
Living Theatre, Odin Teatret, Carmelo Bene, tre esempi possibili di teatro "popolare" (e non populista). La fama che hanno avuto questi artisti è stata incredibilmente maggiore di quella che oggi può avere la Socìetas Raffaello Sanzio. È ovvio che i tempi sono profondamente mutati, ma cosa è successo secondo te?
È impossibile prescindere dall'eccezionalità degli anni sessanta e settanta. C'era un tessuto sociale, un terreno fertile, una coscienza politica, tutto era proteso verso la trasformazione. Il teatro che è situazionista per natura ha saputo rendersi fondamentale. C'erano artisti disposti a rompere le convenzioni, ma c'era anche un pubblico disposto ad accogliere provocazioni e suggestioni. Oggi non ci sono più ideologie, tutto è cambiato, i nostri giorni appaiono davvero sconquassati e la riflessione oggi guarda soprattutto all'estetica come possibile ideologia… Anche in questo però trovo la grande magia del mondo teatro, perché comunque sia tra quello che è accaduto ieri e quello che accade oggi, persiste un filo rosso. Negli anni sessanta potevamo star seduti in terra tutta la notte a vedere spettacoli. Oggi il pubblico è stanco, è tutto molto diverso…
Eppure da rompere ci sarebbe tanto…
Ma non si può rompere finché non si ricostituisce una coscienza della necessità della cultura. Siamo davvero in una società conservativa, forse c'è bisogno che collassi del tutto per essere rotta. Se il collasso non arriva alla sua massima potenza non riusciamo a rompere. Gli artisti fanno le loro fughe in avanti, nelle loro visioni ci mostrano quello che noi vedremo domani…e dopo domani noi stessi valuteremo chi ha visto giusto. Bisogna dire che tanta della produzione anni sessanta-settanta è stata superflua, considerando tutto "alternativo" si sono fatti dei guasti irreparabili.
Il guaio vero è che tutti gli anni sessanta-settanta non hanno tramandato una storia: i figli non sono diventati padri. È questo il guaio vero, un problema reale. Oggi mi trovo di fronte a gruppi di artisti giovani che fanno cose molto "vecchie", cosa significa? Ripropinare una minestra? Assolutamente no. Credo nell'onestà di fondo. Questi "maestri” che hanno spaccato e mescolato tutto, non sono stati poi in grado di trasmettere la loro ricerca. La loro colpa è quella di non essere riusciti a diventare da figli a padri.
Eppure… capita spesso di vedere compagnie giovanissime che non guardano alla generazione novanta, a volte ignorata del tutto, ma sono rivolte soprattutto alle propaggine del terzo teatro. Si riconosce tutto un linguaggio usurato che ricorda soprattutto le fascinazioni del mondo Odin Teatret, che alla fin fine storiograficamente risulta l'ultimo gruppo raccontato dalle accademie. Forse il problema è che l'Odin è diventato tradizione?
L’Odin Teatret è diventato tradizione, esattamente come lo diventerà la Socìetas Raffaello Sanzio. Ma un conto è imitare un artista, un altro ovviamente è studiarlo. Duchamp non l’ho conosciuto, ma l’ho studiato attentamente e ho capito che dopo di lui nulla è come prima. Dopo Beckett e Duchamp, per citare ancora Romeo Castellucci, la visione del mondo non è più la stessa. I nostri guai dovremmo probabilmente attribuirli alla visione duchampiana. Effettivamente gli anni novanta sono una sorta di buco nero, soprattutto per i giovani. Al teatro Fabbricone spinti proprio dalla necessità di voler mettere dei punti fermi, qualche anno fa facemmo delle monografie di artisti. Monografie di artisti da vivi e non, come solitamente accade, da morti. Era il 1994 e decidemmo di iniziare con Remondi e Caporossi. Volevamo mettere dei punti fermi e così proponemmo tre lavori della storica coppia. Il loro primo spettacolo, uno a metà della loro produzione e l'ultimo lavoro.
Era un modo per mettere a fuoco una realtà teatrale e dare "dal vivo" l'idea forte di una continuità artistica. Il primo lavoro riallestito fu Sacco, e fu anche per loro l'ultima volta che lo misero in scena. Quello che voglio dire è che credo sia assolutamente necessario individuare dei valori, mettere alcuni punti fermi nella riflessione.
Ma a volte, non dico nel caso specifico di Remondi e Caporossi, la continuità della ricerca - che aiuta a storicizzare il fenomeno - significa anche incapacità di mutamento. Ora appellandosi alla "necessità" dei tempi contemporanei, come unico valore e criterio di "giudizio" e poiché i tempi sono estremamente mutevoli e cangianti, non c'è il rischio di entrare in un paradosso? Il ricatto del nuovo non è l'oscuro rovescio della "necessità" dei tempi contemporanei, e poi storicizzare non è mettere un punto finale a un processo?
L'argomento è assai complesso e lo approfondiremo durante gli incontri che abbiamo previsto. Per adesso dico che bisogna assolutamente difendere il tempo dell'artista. Il percorso, il progetto dell'artista ha bisogno di tempi lunghi, anche di tempi morti che vanno difesi. Altrimenti si entra nella macina della produzione. Al centro noi dobbiamo sempre mettere gli artisti, perché sono il nostro vero patrimonio. Poi ovviamente l'ansia del nuovo incombe continuamente ed è per questo che con Contemporanea ho cercato di creare un luogo difeso da tutti i meccanismi di produzione. Quando ho pensato il festival non ho agito, come succede spesso, secondo la logica del supermercato: prendo un po' di questo, un po' di quest'altro e li metto insieme per comporre un progetto. Non trovo questa operazioni di grande interesse, preferisco molto di più creare un situazione come Alveare in cui gli artisti sono scelti in quanto tali e non per uno spettacolo preciso. Sono invitati degli artisti a cui si permette di esprimere la propria urgenza, negli Alveari chiediamo all'artista una sorta di sintesi formale e concettuale. Entrando in questi luoghi il pubblico si troverà di fronte a diversi artisti, potendo così percorrere un viaggio incredibile nel pensiero. In questo senso la parola "alveare" rende bene l'idea: ogni ape lavora nella propria cella in perfetta armonia con tutto il sistema. Ognuno ha il suo compito e lo fa per sé e per gli altri. Alveare è sicuramente il motore che sviluppa tutto il progetto Contemporanea. L'essere un luogo aperto al pensiero e alle idee dovrebbe aiutare il festival a non invecchiare ma a rinnovarsi ogni volta con forze nuove.
Il mio sogno è che Contemporanea nel tempo diventi un luogo di incontro per artisti, produttori, operatori, che a un certo punto si incontrano e sposano una progetto. Tornare a Contemporanea per capire, per vedere gli artisti nei loro percorsi. Non mi interessa fare un festival, cerco piuttosto di creare un luogo dove si sviluppa la vita, dove si sviluppano progetti creativi. Questa è la necessità che riguarda il presente ma guarda anche al futuro. In quattro edizioni qualcosa è successo, artisti si sono incontrati, dalle opere in divenire sono nati percorsi, progetti, vere e proprie opere finite. È il caso di Raffaella Giordano che dopo il suo assolo "Per una stanza", ha deciso dopo l'esperienza di Prato di dar vita poi a "Senza titolo".
Un festival che punta a essere svincolato dai sistemi produttivi e distributivi, che cerca di creare uno spazio per la libertà creativa degli artisti… per quanto ci potremo permettere ancora questo “lusso”?
Finché non mi fanno smettere io continuo! Abbiamo già attraversato dei tempi durissimi, ma gli investimenti che abbiamo fatto in questi anni tempi così complicati, ci permetteranno di dare forza al futuro. Contemporanea oggi si svolge in un'epoca terribile sia dal punto di vista economico che politico-sociale. Eppure facciamo un festival e riusciamo a farlo anche con più forza, meglio delle scorse edizioni, forse con meno soldi, ma questo non ci limita, non ci toglie niente. Sappiamo che dobbiamo fare di più. Ma io sono ottimista, il bicchiere è sempre pieno. In questo festival ho riunito un po' tutti settori, ma ho cercato di spaccarli tutti dalla prima edizione, perché la tendenza è contraria è sempre quella di mettere in chiaro da che parte stai. Danza, teatro ragazzi, quello che un tempo si chiamava "teatro immagine", generazione novanta, chi pretende ancora di vedere la vita in compartimenti stagni non può che scontrasi di fronte a un festival che può sembrare "complesso" proprio perché rispecchia dei tempi assolutamente complessi.
Tra venti trent'anni… il teatro del futuro o quale futuro per il teatro?
Tanti anni fa, con un caro amico che purtroppo non c'è più, Leo Toccafondi, facemmo un progetto di laboratorio "16 anni al duemila": era un laboratorio che cercava di capire cosa saremmo mai diventati nel duemila, cosa sarebbe successo. Devo dire che le cose sono cambiate, i processi sono andati avanti, qualcosa che pensavamo indiscutibile lo abbiamo rimesso in discussione, altre cose no. Tra venti e trent'anni forse ci saranno persone come noi che si porranno domande simili, ma è la vita…non posso immaginare un'epoca senza la magia della creazione, non lo posso immaginare, credo che sarà diverso, forse non lo chiameremo più teatro.
Forse tra venti trent'anni parleremo della Socìetas Raffaello Sanzio come baluardo della tradizione. O forse ne parleremo come oggi parliamo di Carmelo Bene, artista amato odiato ma punto di riferimento. È una domanda a cui non so rispondere, mi interessa più tramandare, le esperienze, i processi, le conoscenze…