Che cosa è veramente importante, oggi, quando parliamo di attori?
Non è facile isolare delle questioni senza cadere nelle trappole di un linguaggio spesso usurato, o che finisce per restringere un campo che vediamo estremamente aperto. Per ora vogliamo sostare attorno a due punti piccoli e sostanziali: attore è chi agisce sulla scena, luogo socialmente riconosciuto; attore è chi viene guardato da persone convenute nello stesso luogo e con lo stesso preciso fine.
Cosa sei tu, mentre abiti la scena, luogo dell'azione e della visione?
Cosa vedi, mentre sei in scena?
Quanto e come ti senti (o non ti senti) dentro ciò che viene definito “rappresentazione”?
E ancora: cosa vedi mentre guardi il lavoro degli attori? Come guardi il loro lavoro?
Chi è quella figura che abita la scena, quando sei tu a guardarla?
Non sono una cosa (anche se a volte mi piacerebbe), sono una persona e
continuo ad esserlo anche quando entro in scena. Quello che entra in
scena sono io, con qualche valore clinico leggermente alterato.
E vedo quel che vedono i miei occhi, che forse sono clinicamente alterati
Non credo vi sia altra risposta alle prime domande.
Per le restanti è necessario un pensiero.
Non posso non rilevare che viene insistentemente usato il verbo
“guardare”, ma io, solo marginalmente e per forza di cose mi occupo di
“spettacolo” (spectare, ma anche l’inglese “spectacles”, occhiali).
Il teatro, invece trova la sua sede naturale nell’apparato uditivo, è
cosa più che altro da ascoltare.
E poi, in sala vi è comunque un uditorio e giammai un guardatorio.
Invece ciò che accade in scena è faccenda di artisti e gli artisti
della scena, sulla scena han parecchio da fare.
Proverò a dire cosa.
Il fare e il creder di fare.
Ogni artista è un animale che delimita il suo territorio, complici
l'età e lo studio.
Il territorio, la regione, è tutto ciò che l’artista sa.
Ma per la scena quel che conta è la linea di confine, è il dramma.
E’ la fascia, è uno scarto.
Lo scarto tra ciò che si fa e ciò che si crede di fare.
La fascia è la linea di confine. Una sorta di terra di nessuno che
combacia e si fonde con l’inconosciuto.
La zona centrale della regione è invece il “consolidato”.
L’artista dovrebbe aggirarsi dentro la fascia e continuamente tentar sortite.
Muoversi sicuri al centro della fascia, senza l’alea dello
sconfinamento è comportamento di stucchevole prudenza. Bivaccare al
centro della regione (del consolidato) significa comportarsi da
ignavi.
Tanto più si staziona nei pressi del centro tanto maggiore è il ciò
che si crede di fare, tanto più si sta al centro del territorio tanto
meno è necessario l’ascolto.
L’attore che permane nella zona centrale del suo territorio è sordo,
urla e stona come il peggiore dei cantanti e si sente il migliore
degli attori.
Non percepisce il fastidioso ridicolo di se.
Non si vergogna del suo essere umano.
Certo non è un criminale poiché non detiene potere alcuno ma si
approssima alla forma dei bellimbusti ( i cosiddetti “onorevoli”).
Compito dell’artista è osar di fallire.
Vivere lo scarto tra la tendenza naturale alla mortale replica e il
desiderio di un vivo creare all’impronta. Il conflitto. Il dramma. La
fascia di confine.
Desiderio di creare o meglio desiderio di trovarsi in un
concatenamento di creazioni.
Dunque, la retrovia è ciò che si crede di essere, ciò che si crede di
fare, la replica.
La prima linea è invece ciò che si è, ciò che si fa, il creare.
Sul palcoscenico bisogna rasentare la prima linea e concedersi sortite.
La sortita è spingere in avanti la prima linea.
La sortita è osar di fallire.
Le continue sortite in territorio sconosciuto spingono un po’ oltre la
linea di confine, il limite.
Si tratta di piccoli avanzamenti e dunque di grandi gioie.
Claudio Morganti