Dal Giappone sono arrivati nei decenni postbellici vari segnali che hanno interagito con il mondo dello spettacolo occidentale. Se molti sono stati quelli che hanno sentito il fascino delle codificazione del Nō e del Kabuki, nelle loro strutture altamente formalizzate, altrettanto importante è stato l’impatto che il Butoh ha avuto sull’immaginario euro-americano, con infiniti (e spesso assai noiosi) imitatori. Poco o niente fino ad ora si sapeva invece del repertorio di drammaturgia del paese, ricco, variato e per molti aspetti soprendente, con il solo Mishima Yukio che compariva qualche volta nei repertori con pièces come
Madame de Sade (di cui resta memorabile la versione passata anche in Italia diretta da Ingmar Bergman, con un manipolo di indimenticabili attrici). Mancano da noi anche i classici del nuovo dramma novecentesco, ad esempio è stato pubblicato solo un testo di Tanizaki Jun'ichirō e oggi, dopo tanto cinema, tanta narrativa in forma di libro e di manga, è il momento di osservare quello che è il filo di maggiore interesse nei teatri di Tokyo, spesso definiti come palcoscenici-studio, nella tradizione della celeberrima sala Bungakuza, dove Mishima si divertiva ad andare in scena nel
Britannicus di Racine e dove si susseguono ancora oggi stagioni fitte di proposte.
Hirata Oriza, notissimo nel suo paese anche come giornalista, con moltissimi fans per le sue rubriche dai titoli curiosi (
Di nuovo a casa,
Stavo per farlo) da quando iniziò giovanissimo la sua attività. L’autore è ormai popolarissimo in Francia, dove non si contano più le versioni dei suoi numerosi lavori, che spesso giocano con l’autobiografia, come è tipico di uno scrittore che ha inaugurato giovanissimo la propria produzione, con un lavoro intitolato
Oriza e il test di ingresso all’università. Fino dall’inizio la sua attività si riferisce alla compagnia da lui fondata, Seinendan, in cui svolge anche attività registica, ma anche didattica, facendo da trait d’union tra le varie generazioni. Non si contano ormai i premi, i riconoscimenti, le segnalazioni, le critiche positive che hanno accolto i suoi titoli più noti, come la magnifica opera corale
Gente di Seoul (1989), in cui una melanconica trama di affetti, dall’impatto quasi cechoviano, è ambientata nella capitale coreana nel 1909, poco prima dell’occupazione nipponica o
Tokyo Notes (1995) che narra la contemporaneità del suo paese attraverso la visione di frammenti. Al centro del suo lavoro c’è una riflessione sulla lingua, di cui ha dato spiegazione anche in un manifesto come
La teoria dello stile parlato nel teatro contemporaneo, in cui spiega la sua attrazione per il racconto in scena dei momenti di quiete, delle pause che svelano molto più delle parole.
La conferenza di Yalta (2002) è un detour verso la commedia nera, indagata nei suoi aspetti più estremi. Il modello è il rakugo, una forma di intrattenimento comico popolarissima nel Sol Levante, in cui un interprete virtuoso (se ne ricordano moltissimi del Periodo Edo, che suscitavano un vero e proprio delirio di folla e molti sono quelli aprezzati oggi, tra cui Kaytsura Shijaku, noto per le sue rappresentazioni in inglese) sale in scena e racconta una storia buffa, potendosi servire solo di un ventaglio come unico accessorio. Il termine ha come signifcato “lasciar cadere le parole” ed è esattamente quello che fanno i tre comici presidenti, impegnati a decidere del destino del mondo, tra bizze, capricci, infantilismi e incontinenze uriche. Il potere viene quindi raccontato come un mockumentary, finto documentario irridente e perfido, oppure come uno scalcinato spettacolino di periferia, pieno di volgarità e di doppi sensi, nel momento in cui, con un grande trauma nazionale, per la prima volta l’esercito del suo paese torna in guerra, nei bruciati paesaggi iraqeni. Un lavoro che gioca con diversi piani di scrittura, ma che spesso si confronta anche con la danza e con installazioni site specific, come l’affascinante progetto
Community Cafè, a Osaka, un vero e proprio luogo di ristoro, dove ogni giorno per due ore intellettuali e artisti parlano dei temi più diversi in forma di performance.
La vita metropolitana, in tutti i suoi aspetti è anche il filo rosso del lavoro di Okada Toshiki, anch’egli segnalato nel vivaio del teatro Seinendan. Dopo gli studi di economia, ha scelto come nome per la propria attivissima compagnia Chelfitsch, una storpiatura infantile dell’aggettivo inglese che definisce “egoista”, termine che a suo parere ben rappresenta il Giappone di oggi rispecchiato nei suoi più segreti moventi. Nella notte illuminatissima di Roppongi, è infatti il notissimo locale Super De Luxe a accogliere una recente performance,
Free time, che reca sul poster immagini disegnate con un tratto bambinesco, per descrivere un tempo libero che diviene una sofisticata trappola per individui e collettività, nel dialogo muto tra una donna seduta in un ristorante a riempire un quaderno di disegni privi di senso e una cameriera che si sforza di intuire il loro significato. Il physical theatre è un punto di riferimento costante per questa scrittura, messa in scena da attori che sono anche danzatori. Nel breve spazio di un decennio la sua attività è venuta prepotentemente alla ribalta nel suo paese, come all’estero, con ottimi risultati anche in Europa, tra il KunstenFestivalDesArts e Uovo a Milano. I suoi lavori principali hanno titoli ironici, come
On the harmful Effects of Marihuana (2003),
Five Days in March (2004),
Air-Conditioner (2004),
The End of Toil (2005). In
Air Conditioner due performer abbigliati con pantaloni neri e camicia bianca, con identici occhiali, mettono in discussione lo statuto del testo e dello spettacolo, suddividendone la scansione in un minimalismo spietato, portato alle estreme conseguenze, come un match di rara violenza che è sempre e solo alluso, in cui argomento del contendere è un condizionatore d’aria che è tenuto troppo alto. Altrettanto forte è l’impatto di
Cinque giorni a marzo, che rimane il suo titolo più noto. Sullo sfondo di un love hotel a Shibuya, si incrociano e disperdono i destini di personaggi spesso alla sbando, che hanno l’età dei loro interpreti, mentre fuori scoppia su tutti i megaschermi la cronaca televisiva dell’inizio della Guerra in Iraq, il 21 marzo 2003, un evento che, come già detto, riportando all’attenzione l’esercito nipponico, mette radicalmente in discussione abitudini, ritmi, modi di vita. Come in un grande affresco corale, scena dopo scena si compone il ritratto di un paese in crisi di identità, che rivede davanti a sé il temuto spettro della guerra. Uno straordinario lavoro iperrealista, quindi, che mette in azione una precisa vocazione alla mimesi del quotidiano, con i comportamenti ‘ fotografati con una nitidezza cruda, che a tratti diventa geniale coreografia della banalitià verbale e gestuale.
Luca Scarlini