Un attore-prisma, tetraedro di diversi linguaggi: teatrale, televisivo, cinematografico e radiofonico. Ma anche attore-mondo, cuore e istantanea di immaginazioni. Frankestein–Project (2007), esperimento teatrale del regista ungherese Kornél Mundruczó, poi sviluppato nel film in concorso a Cannes 2010 Tender son, è un dispositivo di straniamento che parte dal microcosmo sentimentale dei suoi protagonisti e arriva a coinvolgere lo spettatore in un patto dialogico ferocemente instabile. Un attimo presente agli occhi di chi recita, l’attimo dopo completamente assente, in grado di spiare l’intimità della scena senza essere visto, lo sguardo è continuamente sollecitato, chiamato a tutti gli effetti a inserirsi in una storia di cui è allo stesso tempo attore e testimone.
Un adolescente scappato da un istituto minorile si imbatte per caso nel casting di un ansioso regista che, mentre ci chiama ad aiutarlo nella scelta finale, snocciola, tra un candidato e l’altro, insegnamenti sull’arte cinematografica. L’interno è una fabbrica dismessa, la stessa in cui assistiamo allo spettacolo, ora divenuta mensa sociale. Sul palco ci sono anche una donna, che ci viene presentata come responsabile del refettorio, una ragazza e un uomo più anziano. Non conosciamo ancora i rapporti che intercorrono tra di loro, ma presto, quando il ragazzo uccide una delle candidate del casting, c’è uno scarto e l’azione cambia completamente. Siamo così introdotti in una cupa tragedia familiare, dai tratti talvolta melodrammatici, scandita dall’indagine di un commissario di polizia, ridondante voce narrante che continuamente ci chiama in causa. Gli attori sono sotto l’occhio di una sorta di Grande Fratello, incoscienti nelle loro azioni, nonostante la presenza di telecamere che li mandano in onda su due televisori. Sembra di essere sul medesimo confine dei sentimenti messi in mostra negli show televisivi, in questo caso estremizzati dall’assenza del filtro del tubo catodico. In scena c’è chi agisce come si trovasse da solo, ma con lampi improvvisi di lucidità: tutti hanno osservato quanto è successo, e azioni che fino a un attimo prima si credevano intime, segrete, prive di peso cambiano di segno.
Idealmente ispirato al romanzo di Mary Shelley, Frankestein-Project contiene in sé un’ulteriore riflessione, quella sulla mostruosità dei prodotti umani. Come nel caso dell’abbandono di un figlio, in cui il corpo vivente diviene metafora di un passato di colpe e ombre che ci ostiniamo a rifiutare. In nome di un generico “va tutto bene”, eludiamo il baratro della caduta, portandolo alle sue estreme conseguenze.
L’attore è materia che a Mundruczó interessa osservare molto da vicino, indicandone le storie nei volti, fotografandone baleni. La famiglia, una costante della sua ricerca tecnico-artistica, diviene il suo strumento prediletto, un grande simbolo per parlare di umanità, «qualcosa che tutti capiscono immediatamente come una casa».