Sul palco c’è un salotto con tanti poster: Marx, Lenin, Che Guevara e le bandiere rosse.
Entrano quattro personaggi con le maschere antigas, indossano tute in amianto gialle, hanno con sé un contatore geiger. Tutto mima il dopobomba, dalle luci dei neon intermittenti al fumo di scena diffuso in sala. Una bandiera rossa con la scritta “Cobas” provoca il pianto di uno degli esploratori: pianto malinconico che serve per decontaminare.
Il pianto è interrotto da un personaggio che cammina disinvolto senza tuta, si beve una birra, prende una chitarra e suona In a manner of speaking di Winston Tong. Durante la canzone una sirena avvisa la fine dell’introduzione. I personaggi si cambiano i vestiti e tornano in divisa blu da operaio; sono nove in totale e si siedono allineati di fronte al pubblico, al centro c’è una corifea vestita secondo una possibile tradizione asiatica, ai suoi lati le due squadre: Orazi e Curiazi, due famiglie della Roma antica in lotta per il duello che vide sottomessa Albalonga, testo di Bertolt Brecht messo in scena dall’Accademia degli Artefatti. Proprio come in un gioco televisivo, dove l’azione si svolge caotica, in questo volontario protrarsi del combattimento c’è anche la lavagna segna punti: armi e vittime.
Una delle frasi finali della corifea fa dubitare di ogni speranza: «Basta ridere», la cui ambiguità è amica della loro ultima risposta: abbandoniamo la nostra identità sia unendoci, seguendo il gruppo, sia allontanandoci, perdendoci di vista.
L’Accademia degli Artefatti fabbrica un linguaggio dotato di una simbologia semplice: bandiere rosse, icone socialiste, continui riferimenti alla pop-culture e una telecamera digitale che riprende il dietro le quinte e il pubblico. Tutto questo crea un’apparenza illusoria del già visto. Si insegue il bisogno di una libertà che possa far leva su una moltitudine di linguaggi contemporanei, anche quelli che spesso vengono bistrattati per la loro apparente superficialità.
Bernardo Brogi