Una breve attesa ci separa dall’apertura delle porte di un museo di etnografia. Sicuramente, ad attenderci all'interno, ci saranno dei resti di un qualcosa da conservare.
Entrati, un’austera hostess ci porge una scatola di guanti in lattice. Lei, la hostess, è come tutte le hostess, cordiale ma distaccata, alta e slanciata, capelli lunghi lisci e curati, con una gonna nera che arriva al ginocchio e una camicia bianca leggera; ci esorta a seguirla, si volta e subito mostra lo strappo che le scopre le spalle. Siamo al MET di Santarcangelo, lei non è una hostess, ma un’attrice, noi non siamo visitatori, ma spettatori, è luglio e col caldo il lattice ci fa prudere le mani: questo è Amabo te, di Fuochi.
Di ciò che è conservato nel museo vedremo poco, perché, dopo pochi passi, la nostra attenzione sarà monopolizzata da un altro personaggio; è una ragazza dal corpo acerbo che dice di desiderare un bacio, che le sue labbra siano sfiorate, che le due anime, uscendo dalle rispettive bocche, si uniscano in un luogo altro, ovvero nel luogo di un incontro. Lei, a differenza della hostess, è irruente, nevrotica, e perché no dispettosa: si palesa urlando frasi d’amore, richieste, desideri e pulsioni, per poi scappare a nascondersi dietro gli artefatti che non devono essere dimenticati. E noi, con la hostess, continuiamo a cercarla per le altre stanze.
Sono personaggi opposti, dai caratteri difficilmente conciliabili, eppure la hostess è proprio lì per esibirci, senza imbarazzo, la sua creatura.
Un museo serve per raccogliere i ricordi senza vita della storia, ma qua la storia più bella che viene raccontata, e che si sostituisce alla scenografia di un’istituzione, è quella di un’antologia di frammenti vivi che non vogliono essere persi.