Incontro con Ermanna Montanari, Leila Marzocchi e Marco Smacchia
Le murene
Leila Marzocchi: Quest'immagine è per me un sipario. È qualche cosa che congela-fotografa il momento del non-ancora. Il non-ancora è qualcosa che deve accadere ed è ignoto. Questo disegno è il primo di una serie che ho fatto per Niger, un fumetto che ho cominciato a disegnare nei primi anni 2000. Allora non sapevo che cosa sarebbe stato Niger, sapevo solo che dovevo consegnare la copertina all'editore prima di disegnare la storia. Quindi io mi sono messa in una situazione di non-ancora, mi sono immersa in un nero dal quale sono venuti fuori questi pesci.
Tecnicamente, io parto dal nero: costruisco da me le carte su cui disegno. Sovrappongo più fogli di carta opalina su cui metto la china, e ripeto l'operazione per diversi strati: a quel punto con una piccola traccia a matita la carta s'incide, e io posso immergermi in questo nero e tirare fuori luci, barlumi, forme. Nel momento in cui creavo quell'immagine ho percepito qualcosa di magmatico, una condizione psichica. Da lì ho tirato fuori il mondo di Niger e la sua storia. Credo sia stato per questo che Ermanna ha intuito che le murene potessero essere l'immagine del suo festival, perché identifica il momento del non-ancora, quando Ermanna stava tessendo le sue tele.
Ermanna Montanari: Io so di essere iconoclasta. Se vedo un'immagine che per me è parlante, quella mi scalfisce per molto tempo, sa essere talmente potente che perdo tutte le altre. Quando ho visto le murene di Leila ho capito che sarebbe stata l'immagine guida. Solo dopo ho capito perché l'avevo scelta.
Quello che volevo era qualcosa che non avesse perimetri, così come era la mappa del festival che stavo costruendo. Si lavora sempre con un ignoto, anche quando si insegue un bagliore. Io cercavo un'immagine che fosse legata alla trasmutazione dell'attore, alla sua irriducibilità.
A un certo punto il disegno di Leila è diventato un sentiero, mentre costruivo la mappa inseguivo questo disegno, dove ci sono degli sguardi che portano a destra e degli altri a sinistra, quindi s'intersecano, creano nodi che nascondono le cose.
L'immagine è entrata nella costruzione del festival al punto che abbiamo coniato il termine “murenico”, proprio per indicare il nostro procedere per anse, il nostro andamento erratico.
La cornice bianca
Ermanna Montanari: Quest'immagine era talmente potente che, lavorando con Marco Smacchia sulla grafica, abbiamo azzerato tutto e Marco ha creato un biancore. Il bianco è un'immagine sonora, un foglio che può essere scritto. Marco ha creato una partitura musicale attraverso le parole.
La parte bianca del programma è nei canti, nell'elevazione che parte dal campanile, dalle finestre, come se da questa fanghiglia melmosa che si portano dietro le murene emergesse improvvisamente il respiro del bianco, che ha dato un grande alleggerimento ed è entrato nella definizione di questo festival.
Tante volte si insegue un barlume, poi questo barlume si perde e quando lo si ritrova è modificato.
Sin dall'inizio del lavoro grafico ho capito che il perimetro nel quale inscrivere l'immagine sarebbe stato un quadrato, una gabbia .
Mi piace cavalcare gli opposti, così come mi piace cavalcare la possibilità di un attore che sa crearsi compagnia e mettersi in relazione a un coro, a una comunità oppure le figure mondo, le monadi, che assumono dentro di sé una verticalità. Solo qualche tempo dopo ho scoperto che le murene sono degli anfibi, e che sono quindi esseri dalla doppia natura. L'intuizione ti parla e ti conduce verso la scoperta di qualcosa che era prima di te.
Marco Smacchia: L'immagine è un disegno, fatto non scontato, e il disegno è un'idea che per essere realizzata ti richiede di usare i muscoli. Il farsi-facendo di cui parlava anche Leila è una caratterista tipica del disegno: si sa quando inizia, ma non dove e quando finisce. L'idea si concretizza quando c'è il gesto, percorso che fa parte del lavoro dell'attore.
Anche il logo è stato creato cercando di replicare semplicemente la sinuosità delle murene unita all'idea del quadrato: per far sì che venga sottolineata l'assenza dei limiti, l'espandersi di un cosmo, visivamente bisogna porre dei contorni. Per questo il lato sinistro del logo è verticale, mentre il lato destro è sinuoso.
Ripensando al triennio, l'accento è stato messo su tre aspetti diversi: il primo anno c'era una fotografia, il secondo anno l'icona è stata sostituita da un pieno di colore, e quest'anno abbiamo lavorato sul disegno. Tutte e tre le scelte, e il loro portato, si sposano perfettamente con i festival di Santarcangelo 2009/2011.
Dove ti porta il disegno
Leila Marzocchi: L'interesse fisico di questo disegno sta nelle presenze aggrovigliate dei pesci, e nella manualità, nel “mettersi a fare tanti segnetti” fino a raggiungere una completezza plastica: è finito quando io ho deciso che c'era abbastanza luce. Mi calo in una condizione che ha a che fare con le volute del cervello, con le viscere, il sottoterra: attraverso la ripetizione la mia immaginazione si stacca da quello che sto facendo, è una ipnosi.
Mi piace pensare di aver fatto questo disegno per Santarcangelo 41 senza saperlo. Quando ho disegnato le murene non conoscevo nemmeno di persona Ermanna. Con quest'immagine è accaduto che il tempo e l'oggetto si siano confusi tra loro, in un gioco di compresenza che va al di là di una linea cronologica.
Marco Smacchia: Il disegno ha una dimensione temporale peculiare, ma che ho ritrovato nel costruire il logo, nel ragionare sull'impaginazione del catalogo, nel decidere la forma per la cartolina. La prospettiva di lavoro era di natura magmatica: non potevamo essere rigidi, perché sarebbe stato uno scontro assoluto. Abbiamo lavorato rifuggendo il decoro. Ogni volta che ci accorgevamo di questa stonatura, cercavamo di andare avanti fino al bivio successivo, e così fino alla fine.
La vivezza, le nuvole
Ermanna Montanari: Quello della cartolina non è il disegno intero: tagliandola abbiamo generato un'altra immagine. L'arte sta nel fare, non è uno stabilire oggettivamente la direzione delle cose per contemplarle, è un continuo divenire.
C'è una questione dell'Occidente che mi turba sempre molto: cerchiamo continuamente l'originale, il “da dove viene”. Non sappiamo in nessun modo contemplare una vivezza. L'Oriente invece contempla una filosofia, un sentimento che spinge a rifare continuamente. Gli orientali procedono in modo sinuoso per scacciare gli spiriti maligni, perché il maligno procede dritto. Usano simmetrie ma sempre sfalsate, così come si vede continuamente in Tokyo notes. Questa per me è un'immagine dell'attore.
Secondo me gli artisti lavorano per le nuvole. Si passa come piume in questo mondo. La semplicità e la grazia sono un tendere all'infanzia. La prima immagine per il festival è stata una chiamata viso-in-aria. Una voce dall'alto e l'immagine di una città che prega e dice “grazie”. Poi da lì accadono altre cose, per esempio che si apra una finestra e venga fuori una donna vestita di pizzo che fa canto al cielo. Chi cammina alza ancora la testa. Ho cercato di invitare le persone che per me in qualche modo possiedono questa grazia. Il sottotitolo del festival potrebbe essere Bello mondo, così come Mariangela Gualtieri ha battezzato la sua “miniatura”.
Ogni volta che un attore va in scena gli è richiesto di essere pronto a ciò che viene. Noi siamo pronti prima, perché l'allenamento è stato fatto, eppure ogni sera è tutto diverso, ogni sera l'attore è diverso. All'interno del Teatro delle Albe ci ripetiamo da anni alcune parole di Aristofane che costituiscono un vero e proprio rito, le stesse che ho condiviso con i ragazzi del coro Eresia della felicità dando inizio al festival con un murenico scongiuro.
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