Il coreografo e performer bulgaro Ivo Dimchev ha presentato al festival Som Faves, spettacolo-collage che riflette sull’arte e i suoi limiti. L’abbiamo incontrato per porgli alcune domande sul suo lavoro.
Nei tuoi lavori utilizzi e parli spesso del tuo sangue. Sembra essere un regalo per il pubblico, come se tu donassi il tuo intero corpo in versione fluida, in una sorta di rito eucaristico. In Lili Handel prelevi e metti all’asta una fiala del tuo sangue e dici «Il mio sangue è pulito, prendi il mio sangue», mentre in Som faves dici «Il mio cibo è buono, mangia il mio cibo», insistendo continuamente sulla bontà del prodotto che offri. Perché è necessario fornire questa garanzia di qualità?
Quando nomino e uso il mio sangue, specialmente in Lili Handel, per me non è semplicemente sangue, ma è una parte di “cuore”, inteso come segno puro; non è soltanto qualcosa che è necessario negoziare a lungo. In questo senso il mio corpo e il mio sangue sono puliti: voglio ripulirli da tutti i differenti contesti, pensieri e preconcetti su di essi. In generale il sangue può significare tante cose, ma in questo caso specifico, sul palcoscenico, il sangue riguarda il corpo, o meglio il corpo performativo. Non è un oggetto, ma una continuazione, una sorta di estensione del corpo, alla quale le persone possono partecipare non solo come osservatori, ma prendendo con sé un piccolo pezzo di cuore da un cuore più grande.
In Som Faves e nel tuo ultimo lavoro I -on cerchi un’interazione erotica con gli oggetti. Mentre li usi ripeti dei gesti quasi rituali, ad esempio quando sputi. Vorrei che mi parlassi della risposta emotiva che cerchi con queste azioni...
Io non cerco una risposta emotiva dagli oggetti. È piuttosto un’interazione, un dialogo nel quale metto me stesso “in dialogo” . Se devi compiere una qualsiasi azione, per esempio se vuoi scavare una fossa, devi ripetere dei gesti. Il mio lavoro, in tutte le sue forme, anche nella parte musicale, richiede la ripetizione, diversi tipi di ripetizione. Anche se in realtà nulla si ripete mai davvero, perché ogni gesto è sempre diverso, ed è diverso il tempo in cui lo replichi. Il primo gesto è completamente differente dall’ultimo. Io ripeto gli stessi gesti finché questi non si esauriscono: mi serve tempo per capire, progettare e definire nuovi significati per ogni specifico gesto. La gestualità non è qualcosa di istantaneo, ma è un movimento: non può essere statica, bisogna dare tempo al pubblico per divagare con l’immaginazione e vedere l’azione da prospettive diverse. In Som faves questa strategia crea un mio personale rituale con gli oggetti che ha qualcosa a che fare con la sessualità e con l’avvicinarsi all’oggetto e alla sua idea, ma è anche un’insistenza sull’oggetto stesso. Io devo insistere a lungo in questo dialogo, perché a volte è molto astratto e quello che faccio non è immediatamente chiaro e comprensibile. Finché non mi avvicino all’idea che ho di questa azione, devo ripeterla per riuscire a far capire per quale motivo per me ha un significato così speciale e perchè è così importante che sia eseguita. Tutto ciò che faccio è dare una “gradazione” al gesto e la ripetizione è uno dei modi per infondere importanza all’azione stessa.
Sul tuo sito internet il tuo lavoro è definito “physical theatre”, ma questo bellissimo e imbarazzante dono che fai di te stesso mi sembra più vicino a una tortura emotiva che a un “ teatro fisico”...
Il mio sito internet è solo una pubblicità per i miei lavori, ma non ha nulla a che vedere con la performance dal vivo. Penso che il “teatro fisico” sia un buon cliché che abbraccia la natura di tutto ciò che faccio, perché sento una correlazione tra il mio lavoro e il teatro. Io amo il teatro, ma non mi piace e non farò mai teatro di testo. Tutto quello che faccio nel mio lavoro è sempre in relazione col mio corpo e vicino alla coreografia - anche se queste parole in quanto tali non esistono per me, se non per essere torturate, usate e perse. Tutte le definizioni sono sbagliate e quindi anche “tortura emotiva” è un’espressione sbagliata. Non penso a una tortura emozionale quando penso al mio lavoro. Penso a qualcosa di strutturale, musicale. Le mie intenzioni sono tutte a livello tecnico. I miei termini sono la dinamica, la musicalità, il valore, non le emozioni.
Eppure c’è una forte carica emotiva nelle tue performance...
Uso materiale autobiografico. Non voglio usare il ritmo o le composizioni di qualcun’altro, preferisco scrivere da solo i miei testi. E quando uso il linguaggio verbale preferisco attingere alla mia vita privata, perché mi permette di dare armonia alla drammaturgia. Ma anche se autobiografico, il mio lavoro non è emotivo. In ogni modo non penso che questa sia una componente caratterizzante: potrei anche utilizzare un monologo di Shakespeare per mettere in relazione degli oggetti in un diverso contesto. In definitiva non ci sono regole, ma se si coglie un livello emotivo nel mio lavoro è probabilmente perché l’intensità è un valore importante per me, e l’intensità fisica può creare questo tipo di stato emozionale, una temperatura che può mutare fisicamente. Le emozioni sono per me fisiche, risiedono all’interno del corpo.
In Som Faves gridi «Rispetta l’arte!» e poi metti in conflitto/dicotomia questa frase con la parola «sport», che viene ripetuta ossessivamente...
Come si fa a dire che un quadro comprato in un flea market o lungo la strada sia inferiore rispetto a quello che comunemente chiamiamo arte? Il termine “arte” pone una questione di valore all’oggetto che definisce. Tutta la performance è basata su diversi “ argomenti” e uno di questi è lo sport. Nelle prime repliche dello spettacolo i vari argomenti che affronto in questa performance venivano trattati dopo che il pubblico li aveva scelti da una lista precedentemente inserita nel programma di sala. “Sport” era un termine che veniva sempre scelto nel programma. Non voglio dare un significato specifico al termine “sport” o alla frase “respect art” e al fatto che vengano pronunciate sul palcoscenico in un momento specifico. Non uso questo genere di soluzioni, ma connetto dinamicamente alcuni elementi che sembrano giustapposti casualmente, e il pubblico può trovare connessioni “ altre” totalmente autonome.
Chi sono i “cani rosso sangue” che nomini spesso in Som Faves, immaginando che si trovino alle spalle del pubblico?
“Bloody red dogs” è un’espressione che suona molto bene. Mentre scrivevo questo testo ho immaginato che dei cani rossi, di cui non è certa la posizione nello spazio, rappresentassero un pericolo alle spalle del pubblico. Qualcosa che mettesse alla prova la coscienza dello spettatore, facendogli credere che potessero apparire nella performance proprio mentre è intento a guardare quel che faccio.
Di fronte alle tue performance è possibile rintracciare numerose suggestioni e possibili riferimenti: penso ad esempio a tutto il filone della confessional poetry americana, alla voce androgina di Antony Hegarty o alla frustrazione di Joseph Beuys. Quali sono le suggestioni che agiscono sul tuo lavoro?
Mi interessano le connessioni che il mio lavoro suggerisce alle persone che lo guardano, ma l’unica vera influenza sul mio lavoro penso che sia il lavoro stesso. Di solito non seguo un’ispirazione, non ho delle idee. Non ho molta familiarità con Beuys o con la confessional poetry. Molte persone mi hanno detto che la mia voce talvolta assomiglia a quella di Antony, ma la mia voce può essere anche molto diversa. Quel tipo di vibrato, vicino al gospel, l’ho preso da mia madre. Ma probabilmente sono più influenzato dalle cose che vedo, e vedo molte performance, perchè viaggio molto. Ascolto poca musica, ma amo molto le arti visive. Per quanto riguarda i libri, da teenager ero appassionato di storia, ma non leggo quasi più nulla da oltre dieci anni. Molte delle cose che faccio “appaiono”, si creano lavorando: è molto più interessante e produttivo prendersi tempo per riflettere che seguire un’ispirazione.