La redazione dell'osservatorio critico incontra in forma allargata Marco Cavalcoli e Chiara Lagani di Fanny & Alexander, dopo la visione di T.E.L. a Santarcangelo 41. Di fronte a chi guarda c'è un attore o c'è un'attrice, a seconda della serata di rappresentazione. Lo spettacolo avviene infatti in contemporanea in due luoghi diversi, in questo caso Santarcangelo e Ravenna. Si vede uno spazio disadorno, secco, desertico: un tavolo, una sedia, muri vuoti tranne la riproduzione fotografica “dell'altro”, attore o attrice a seconda dei casi. Di fronte a chi guarda la figura tocca, accarezza, percuote il tavolo ed evoca sostanze sonore concrete ma invisibili, mettendosi in relazione con qualcuno o qualcosa che imprime ordini sui movimenti, sui pensieri, sui desideri di chi sta in scena. Sentiamo un generale che sollecita Thomas Edward Lawrence, affinché si metta a capo della presa araba di Damasco. Ascoltiamo ordini gestuali, che attraversano ogni movimento di chi sta in scena. Ascoltiamo dialoghi fra militari francesi e inglesi, che si spartiscono mire espansionistiche.
Chi c'è di fronte a noi? Noi a chi diamo credito? All'attore, Marco Cavalcoli o Chiara Lagani? Al personaggio, Lawrence d'Arabia? A quell'altrove sonoro, ai suoi ordini, alla sua direzione impressa su ciò che vediamo? Al nostro sentire, che si sradica da ciò che guarda, che s'incunea nel vuoto di una azione che sembra “non rivolta a noi”? Come si guarda qualcosa che sembra non essere svolto per noi?
Ribaltiamo la questione: quali visioni attraversano Marco Cavalcoli e Chiara Lagani, mentre sono in preda a una partitura quasi danzata in cui ogni azione viene loro suggerita in cuffia? E quando la guardano?
Tra azione e desiderio: l’attore eterodiretto
Marco Cavalcoli: Quando si lavora sull’eterodirezione è come se in scena ci fosse un attore-marionetta. In Him non è esattamente così: lì mi abbandono a un flusso, procedo su un treno in corsa, senza sapere dove mi porterà. In T.E.L. sono ancora una volta su questo treno, ma in qualche modo comincio ad aspettarmi ciò che arriverà.
Quello che è accaduto a un certo punto in questo spettacolo - ed è una cosa che è accaduta solo dopo il debutto, non durante le prove - è che mi sono ritrovato in una specie di grande gabbia, in cui qualcuno mi diceva cosa fare e come muovermi: una volta dentro, potevo non occuparmi di una serie enorme di “seccature”, di attenzioni necessarie che gli attori devono avere in scena. Eseguo degli ordini ed è come ci fosse qualcun altro in scena: sono lì, ma mi sento contemporaneamente da un’altra parte. Per fare un esempio pratico: un qualsiasi gesto fatto in scena è di norma carico di significati, perché lo si fa davanti ad altre persone; quel gesto è quello che tu stai offrendo al pubblico. In T.E.L. questo non mi succede. È stata una sensazione emersa gradualmente, ma che per esperienza so che ora si accentuerà sempre di più, spettacolo dopo spettacolo.
Chiara Lagani: Per me è stato molto diverso. Potrei raccontare le mie sensazioni sia sul piano esterno che sul piano interno. Ho cominciato a provare T.E.L. più tardi rispetto a Marco, perché ci sono stati dei muri molto difficili da superare nella creazione, ed è stato come se avessi affrontato questa questione quando era già in parte chiarita. Abbiamo provato per mesi, gettando via e ricostruendo. Guardandola da fuori, per me questa marionetta senza fili corrisponde alla percezione che abbiamo avuto della figura di Lawrence d’Arabia, e ha a che fare con le parole di Lady Macbeth quando chiede al marito: «Hai paura a essere nell’azione e nel coraggio ciò che sei nel desiderio?». Tra il desiderio e l’azione c'è un problema che risiede nel tentativo di rendere perfetta la propria volontà: è impossibile che un’azione arrivi allo stesso livello del proprio desiderio perché di mezzo c’è la coscienza. Ecco perché, dentro un pensiero drammaturgico, l’eterodirezione è uno strumento potentissimo: nei laboratori, ad esempio, si riesce a disegnare un altro confine della coscienza dell’individuo e a far sì che ci si possa occupare solo della qualità, al di là della differenza tra azione e desiderio. Ci si trova in una situazione in cui non devi occuparti della volontà di un gesto, ma solo della sua qualità intrinseca, una cosa che forse servirebbe a volte anche in certe occasioni della vita quotidiana.
Dentro questo lavoro provo invece una sensazione diversa, mi sento molto rassicurata. In un certo senso è come se non sapessi nulla: quando facevamo le prove audio dello spettacolo e citavo i testi di T.E.L. qualcuno mi chiedeva se li sapessi a memoria, ma questa volta li sapevo a memoria perché li avevo scritti, non perché li avevo recitati. Come attore non sapevo le battute che dovevo recitare, come autore invece sì.
Marco Cavalcoli: È vero, con l’eterodirezione ci si può davvero occupare della qualità. Se non avessi l’audio in cuffia uno spettacolo come Him sarebbe diverso: sarebbe un monologo d’attore, mi prenderei i miei respiri, le mie pause...
Chiara Lagani: Quando mi è stata posta la domanda: «Per chi lo fai? Per chi compi queste azioni?», mi sono risposta che ogni singolo gesto lo faccio finalmente, e molto di più, per gli spettatori. In questo caso la qualità della mia presenza è la mia performance, il mio pensiero è a voi, perché non devo pensare ad altro. È come per i bambini che alla fine dello spettacolo entrano in scena al nostro posto: per un attimo si rendono conto del pubblico, ma poi cominciano a giocare, dimentichi del resto.
Marco Cavalcoli: Quello che succede a me è una cosa un po’ diversa, è come se delegassi a questa voce, a questo comandante che mi dà gli ordini, il rapporto con il pubblico. Mi occupo di me stesso e solo ogni tanto faccio una sortita “fuori”, ma più libero e forse anche più efficace nel raccogliere l’attenzione del pubblico.
Il lavoro sull’eterodirezione estremizza una questione che è comunque già presente nel lavoro dell’attore. Quando lavoravo con il Teatrino Clandestino avevamo il compito, noi attori, di allenarci da soli e di mostrare poi qualcosa agli altri della compagnia. Lavorando su un testo di Artaud avevo cercato di “scomparire” dalla scena: mi ero messo su una sedia e stavo fermo, come se dormissi, senza far altro che recitare il testo, rimanendo immobile, senza gesti, senza alcuna intonazione. Nel ricordo di quell’esperienza ci trovo qualcosa di simile a quanto fatto con T.E.L., perché c’era questa specie di tuffo interiore che ha a che fare con l’idea del vuoto, con l’idea di non essere presente come carne e corpo, ma in un altro modo. Questo è un fantasma che è sempre presente agli attori: ogni attore è contemporaneamente presente e assente dalla scena. Con l’eterodirezione è come se l'attore avesse molte più possibilità di poter “non esserci”.
T. S. Lawrence, D. F. Wallace e la rivolta
Marco Cavalcoli: T.E.L. è un lavoro sulla mancanza, necessariamente impossibile da cogliere nella sua interezza, non solo per il pubblico, ma anche per noi stessi che lo abbiamo fatto. C’è qualcosa di trascendentale che si attiva solo quando lo tocchi. T.E.L., in realtà, credo sia animato da una profonda tensione etica di noi che l’abbiamo prodotto, ma anche di chi guarda, quasi fosse necessaria una rifondazione dei comportamenti e delle relazioni. La cosa che a me piace molto di questo lavoro è che non dà risposte: se qualcuno volesse travisare e dire che Him o T.E.L. sono spettacoli fascisti, potrebbe dirlo. Mettere l’attore nella situazione di non responsabilità, evocare un dispositivo esterno, come se tutto ciò sfuggisse al volere di un essere umano, ci mette in una condizione radicale. Cercare un’etica in questo lavoro porta a un’aporia, ed è la stessa aporia di un rivoluzionario che prende il potere. Mi sembra che questa fortissima tensione etica abbia la sua bellezza proprio nel fatto che non arriva a dare una risposta, ci lascia sgomenti, a disagio, ci fa chiedere in che relazione ci mettiamo con l’obbedienza.
Anche se sono mesi che lavoriamo su questo spettacolo, io non so da dove parta, è come se ne fossi una cavia. In questo senso ci tengo a essere un oggetto, a non capirci nulla fin dall’inizio.
Chiara Lagani: Quello che ho imparato, grazie ai laboratori sull’eterodirezione, è che con questo dispositivo le persone si affidano completamente a chi eterodirige: hanno una voracità infinita, come se godessero a stare lì, colte da una specie di droga mentale, in uno spossessamento che dà ebbrezza. E chi eterodirige deve avere anche molta cautela, una cura estrema della persona, una totale attenzione a quanto di fragilissimo ha in mano.
Per il nostro lavoro sono stati importanti i testi di David Foster Wallace. In Tennis, tv, trigonometria, tornado lui pone delle domande abbastanza solide sull’ironia, la rivolta e l’arte. Scrive che rivolta e arte si sono intrecciate perché hanno istanze comuni, ma poi la televisione si è impossessata del loro linguaggio e lo ha tradotto, depauperandolo. Questo meccanismo è diventato perverso e sempre più affermativo. La televisione ha smorzato la cautela di cui parlavo, perché quando si deve essere affermativi si hanno molto meno chance, non si hanno possibilità oltre al sì e al no, fascista o comunista, rivolta o reazione, non ci sono sfumature. Si perde il senso di mistero.
Nel momento in cui l’arte viene soggiogata dalla comunicazione e diventa uno strumento univoco siamo spacciati. Wallace chiede: «Che devi fare quando la rivolta postmoderna diventa un’istituzione della cultura pop?» (domanda che è divenuta il testo di un Sms letto dal cronista di 338171, TEL, radiodramma in cui a partire dalle azioni, dalle parole, dai suoni dei due luoghi si costruisce una narrazione “terza”, ispirata ai giochi proposti da Foster Wallace in Infinite Jest). Non ci sono vie d’uscita. Forse la cura che un intellettuale, un artista, un pensatore possono seguire è la salvaguardia di questo senso di misteriosa sfumatura, questa sacrosanta distanza. Quello che possiamo fare è ripristinare un senso di distanza, di mistero. E questo possiamo farlo solo insieme, per uscire da questa impasse.
Marco Cavalcoli: Lawrence era lacerato, dentro di sé, un vero e proprio eroe romantico, perché da un lato ha servito la corona inglese da ufficiale britannico, ingannando gli arabi, e dall’altro si è innamorato della causa di questi ultimi riuscendo a farli sollevare, portandoli alla conquista di Damasco, a farli sedere al tavolo della pace. Così, a distanza di cento anni, ti rendi conto che se oggi un siriano vuole guardare alla propria storia per prendere spunto e forza per il futuro può farlo, può pensare ai beduini arabi e a come si sono ribellati ai turchi. È una rivoluzione fatta da una persona che in realtà è paradossalmente ritenuta una figura tutt’altro che rivoluzionaria, una figura di destra.
«C’è qualcosa che non va. Serve un deserto»
Chiara Lagani: Wallace è credibile perché nello scrivere si comprometteva continuamente, affondava nello stesso fango di cui parlava: è per quello che si aderisce alle sue parole. Quando cercavo un acronimo per T.E.L. ho trovato Termine Eternamente Lontano, che è quello a cui Lawrence agogna ed è in un certo senso lo stesso deserto, almeno nella visione occidentale: mi è sembrato perfetto. Anche se non è detto che quello che è per noi è un miraggio lo sia anche per un beduino, perché per lui è un elemento della quotidianità.
Credo che il deserto abbia una sua mitologia solo per noi occidentali. Nel film hollywoodiano su Lawrence c’è un battuta che fa più o meno così: «Il deserto piace a voi. È vuoto, non c’è niente: a noi piacciono le oasi, le città, altre cose. Il deserto piace a voi occidentali». T.E.L. parla anche di questo, della visione occidentale, di un Occidente che pretende di salvare l’Oriente da se stesso: questo è il vero problema della disparità dei rapporti tra Occidente e Oriente.
Il deserto è un “problema” dell’Occidente, è qualcosa che ci eccita; ma bisogna considerare sempre tutte le implicazioni. I costumi di T.E.L., opera di Loredana Longo, mi provocavano ripugnanza e attrazione allo stesso momento, mi ponevano una domanda, per questo li ho scelti.
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