A Santarcangelo 41, ogni giorno per tre ore al giorno, dall’8 al 17 luglio 2011 ha preso vita dietro la guida di Marco Martinelli il laboratorio Eresia della felicità. Creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij. Non è sfociato in uno spettacolo conclusivo, ma quotidianamente è stato visto e partecipato da numerosi testimoni. Il lavoro è stato attraversato da due diverse tensioni: da una parte l’occhio registico di Martinelli, dall’altra la misteriosa vitalità dei suoi partecipanti. Nonostante vi si possano rintracciare momenti propri e fasi autonome, è quasi impossibile raccontare in maniera omogenea quanto accaduto. Abbiamo così scelto di restituire quest’esperienza tramite un diario che procede per punti chiave, come se avessimo sbirciato tra gli appunti di duecento quaderni.
1. Tutti i giorni Eresia della felicità inizia con duecento adolescenti in cerchio nel campo dello Sferisterio di Santarcangelo. I ragazzi indossano una maglietta gialla, pantaloni neri e stivali robusti dello stesso colore. L’unica scenografia è un piccolo santino del poeta Vladimir Majakovskij, appeso al centro del muro dell’arena.
2. Prima di dare avvio al laboratorio si pronuncia ogni sera uno scongiuro, una sorta di rito, una formula magica per propiziare l’entrata nel palco-patibolo della scena. Il primo giorno di Festival, al primo incontro di Eresia della felicità, Ermanna Montanari, direttrice artistica di Santarcangelo 41 nonché fondatrice del Teatro delle Albe insieme a Martinelli, accompagna lo scongiuro con lo scuotimento di un grosso chiodo di ferro, che passa di mano in mano lungo il cerchio dei ragazzi. È il corifeo-Martinelli che dà il via allo scongiuro dall’interno del cerchio, sferzando due leggere ginocchiate sul di dietro del compagno di destra. È una scossa, che fa scorrere l’energia attraverso i singoli partecipanti fino a ritornare al corifeo, che solo allora incita il gruppo con alcuni versi della Pace di Aristofane: “Compagni, che destino avremo? Il gioco si fa pesante. Però se c’è qualcuno di voi che conosce il mistero, per esempio quelli di Samotracia, è venuto il momento di fare un bello scongiuro”. I ragazzi ascoltano e pronunciano solo “Samotracia!” e dal secondo giorno in poi il “bello scongiuro” diventa “murenico”, dall’animale totemico di questa edizione del festival.
3. Compongono il coro ben dodici gruppi, da subito chiamati tribù, di diversa età e provenienza: Foligno, Conegliano Veneto, Ravenna, Castiglione di Ravenna, Mons (Belgio), il quartiere Scampia di Napoli, Rio de Janeiro (Brasile), Mazara del Vallo, Milano, Diol Kadd (Senegal), Philadelphia (USA), Seneghe e Santarcangelo di Romagna. Molti di loro si conoscono per la prima volta, sono necessarie le presentazioni, così ogni ragazzo dice il proprio nome e cognome accompagnandolo a un gesto che viene ripetuto a specchio dagli altri centonovantanove.
4. Si passa a ”L’Ottava toscana”, tratta da L’Orlando Innamorato del Boiardo, uno dei classici esercizi della non-scuola delle Albe: scandendo il ritmo, verso per verso, Martinelli, intona variazioni vocali e gestuali sullo spartito testuale: “Tutte le cose sotto della luna/ L’alta ricchezza e i regni della terra/ Son sottoposti a voglia di fortuna/ Lei la porta apre d’improvviso e serra/ E quando più par bianca divien bruna/ Ma più se mostra a caso della guerra/ Instabile / Voltante/ E roinosa/ Vale a dire “cazzemosa”/ E più fallace che alcuna altra cosa”.
5. Dopo questa fase, il riscaldamento cresce con la Madeleine, la strega dal piede di animale protagonista di un grottesco canto popolare belga qui riprodotto in danza.
6. Si va avanti con un esercizio nato ad Arrevuoto, il progetto di non-scuola realizzato a Scampia: “‘E cape”, traduzione dialettale di “le teste”. Mirko, uno dei ragazzi napoletani, intona un inno e la massa si muove come un esercito di burattini sul ritmo di un tamburo senegalese, per poi battere in su e in giù le teste nel vuoto. Come una liberazione amara, al culmine dell’energia, il corifeo attacca con: “Ahimé il mondo va in rovina/ Ahimé tutto degenerà/ Noi gli unici eredi dei saggi e degli dei/ Ahimé la fine si avvicina/ Ahimé tutto si perderà/ Noi siam tutti burattini/ Figli, mamme e papà”. Questa partitura cambia di continuo, si misura lo spazio dello Sferisterio di gran corsa in tutte le sue direzioni e profondità, tanto che a volte sembra non bastare e il corteo che si è creato straripa dai limiti dell’area per violare quelli della città.
7. Dopo l’esplosione c’è una sorta di ritorno all’ordine con la creazione della cosiddetta “ciaccona”: i ragazzi si schierano di fronte al pubblico, costruendo un quadrato compatto, davanti i più piccoli e dietro i più alti. Mentre si diffonde un’Internazionale luttuosa, il quadrato inizia un trotto ritmato sul posto e a turno i versi di Majakovskij vengono declamati, quasi urlati, nei microfoni. I versi sono estratti da alcune delle liriche giovanili più famose del poeta e dal poema Vladimir Majakovskij: “Ascoltate/ Si accendono le stelle/ Significa che qualcuno vuole che ci siano/ Significa che qualcuno ne ha bisogno/ Significa che qualcuno chiama perle/ Questi piccoli sputi”; “Mi cucirò calzoni neri/ Con il velluto della mia voce/ E una blusa gialla/ Con tre metri di tramonto”; “Sarà perché il cielo è azzurro/ E la terra la mia amante/ Che io vi dono versi allegri/ Come un bi-ba-bo/ E appuntiti/ E indispensabili/ Come stuzzicadenti”.
8. Lentamente la ciaccona si disfa, l’ordine si scompone e il plotone indietreggia, a volte dividendosi in due, altre distribuendosi su tutta la lunghezza delle mura. In alcuni momenti i ragazzi indossano delle lunghe gonne nere che gli vengono strappate di dosso e innalzate come bandiere. Ai versi già conosciuti se ne aggiungono di nuovi: “Salute compagni/ Siamo una delegazione dell’anno 3006/ Siamo stati inseriti per ventiquattro ore nel tempo di oggi/ Breve il tempo/ Eccezionali i compiti/ Direzione/ Infinito/ Velocità/ Un secondo ogni anno/ Destinazione/ Anno 3006”; “Se i creatori sono esseri come voi/ Io me ne infischio di tutte le arti”; “Dateci forme nuove/ E la voce delle cose/ Dateci un’arte nuova/ Che possa trarre fuori/ La Repubblica dal fango”; “Egregi signori/ Rattoppatemi l’anima/ Affinché io possa spillarne il vuoto/ Io non so se uno sputo sia un’offesa oppure no/ Sono arido come una donna di pietra/ Mi hanno munto sino in fondo/ Egregi signori/ volete che davanti a voi si metta a danzare un magnifico poeta?”
9. Come accade nell’incipit di Mistero Buffo, il coro ricrea un diluvio universale attraverso il battito delle mani sui corpi e lo schioccare delle dita a imitare il ticchettio della pioggia. Tuoni, fulmini e una vera e propria tempesta vengono ricreati dal corpo-cerchio finché tutti i duecento non riescono a salire su pedane che rappresentano le arche-zattere della salvezza. Questi sono i simboli di quel che resta dell’umanità, approdata infine a Santarcangelo, ultimo lembo emerso di terra.
10. Il pretesto di Mistero Buffo spinge Martinelli ad assegnare dei “compiti a casa”: ogni tribù deve improvvisare il proprio approdo alla città a partire da ciò che resta dopo i danni del diluvio; in seguito deve rappresentare una discesa all’inferno e una salita al paradiso. Quella che con ironia Martinelli chiama “bassa cucina” teatrale si traduce nella pratica in brevi esilaranti scene ridotte all’osso, giocate su luoghi comuni, il dialetto, la danza e il canto corale in cui ogni tribù con le proprie risorse e caratteristiche si confronta con il semicerchio di testimoni. Ad esempio i ragazzi di Scampia mettono in scena un party per la fine della pioggia, interrotto da un venditore ambulante di ombrelli che urla “Arrivate asciutti alla vostra fine”; il gruppo di Foligno porta all’eccesso la cifra mimica su cui aveva lavorato, mentre quello di Conegliano realizza un vero e proprio deserto di acque con una ballata finale sulla morte.
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