MAJAKOVSKIJ ACCLAMATO COSÌ
Note di Piergiorgio Giacché
Sono stato testimone di una serie di giochi, di azioni senza termine, prive dell’intenzione di arrivare a un saggio. Considerando che siamo ancora nel mezzo del laboratorio, certe riflessioni possono essere dette, rimanendo però su un terreno critico e non teorico. Questi spunti possono essere raccolti, però devono essere riverificati a esperienza compiuta.
L ’azione pedagogica
Tutto ciò che sarà Eresia della felicità lo farà Martinelli nel campo, con la libertà di un allenatore ma anche di un Maradona. Vedendolo mi sono venuti in mente quei giochi come “palla prigioniera” o “palla avvelenata”. La domanda che sorge è: che cosa è la palla? Questa palla invisibile è probabilmente l’unico strumento possibile per arrivare al testo, alla parola. Il cerchio insegna che ci possono essere anche 20mila spettatori, ma un corpo-cerchio di 200 individui resta indifferente, perché è gioco e non teatro. Quel corpo è chiuso, è grande, è vasto ma a un certo punto può anche cambiare direzione. Scambiandosi il nome, quando vengono pronunciati a turno i nomi di tutti da tutti, non ci si sente più nominati e si consolida il rapporto. Da uno sguardo tutto all’interno, si passa a uno tutto all’esterno: è il cambiamento delicato e interessante di un’azione ludica, il combattimento eterno tra gioco e arte. In questo passaggio c’è anche una componente pedagogica, un’azione responsabile. Alla fine resta l’esperienza e l’azione pedagogica consente all’individuo, senza rendersene conto, senza teorizzarlo, di metabolizzare la distanza fra quanto si è divertito e come è cambiato. Nello stesso tempo ci vuole una disobbedienza, una sfida, un rischio in più. Anche un fallimento sarebbe fondamentale: il fallimento nel gioco è solamente una delusione.
Il traguardo del rito
L’unica strada è cercare il tramite, dunque il passaggio tecnico ma anche critico tra gioco e teatro, che potrebbe essere la ritualizzazione. Non il rito in termini sacrali, ma il rito in termini di linguaggio, giacché ci si sente sempre più convinti quanto più si riesce a eseguire, diventando allenatori di se stessi. La ritualizzazione non è ripetizione, è far rinascere un gusto ludico più alto, senza arrivare a consegnarsi allo spettacolo. Questo è un importante traguardo.
San Giuseppe statua
Quando si assiste al lavoro dei ragazzi, lì per lì, si pensa al “mondo” in un senso anche banale del termine, si prova un’emozione di umanità dovuta alle differenze di età. Tra i 10 e i 16 anni ogni anno è un lustro, si assiste a uno sgranamento generazionale, a un ventaglio di umanità infinito e impressionante. Una così ampia disparità di età può permettere dei salti critici ai ragazzi più grandi: dando loro dei bambini in braccio, in una delle prove, è come se diventassero dei san Giuseppe statua. A quel punto tutta questa corporeità potrebbe avere due fasi di crescita: una fase più fredda e più consapevole, più intimamente sacrale, e un’altra invece più calorosa, più affettuosa. Ma in quell’attimo certe specificità, di questa o di quella generazione, potrebbero ribaltarsi: proprio il quasi uomo, il più adulto tra loro, potrebbe rivelare le sue caratteristiche infantili, sempre Majakovskij permettendo.
Acclamazione e non declamazione
Avviene un miracolo su Majakovskij che va salvaguardato: è un recitare i versi non per declamazione ma per acclamazione. A un certo punto la ritmicità e la ritualità riducono questo senso di sentire Majakovskij, che diviene un materiale vivo ma non ironico. I ragazzi riescono a dire “stuzzicadenti”, “piccoli sputi” rivolti alle stelle in una maniera bellissima, acclamante, la quale toglie persino il gusto della provocazione. Il potente ingrediente che va sfruttato è Majakovskij, acclamato così, anche più frammentato, per essere posseduto da ciascuno.
Un’invasione di campo al contrario
Nel momento frontale, quando i ragazzi guardano il pubblico, c’è il rischio che lo sguardo si traduca in sfida e diventi comunicazione. Se invece si riesce a conservare il loro vero sguardo alieno, il loro “guardarti senza riconoscerti” può fare in modo che chi guarda sia caricato di responsabilità. Sebbene ogni variazione dello sguardo che non riconosce possa scivolare nello spettacolo, questo particolare sguardo deve restare una sfida interna al gioco che permetta un’invasione, una specie di invasione di campo al contrario. Una parte molto toccante è quella del muro di volti, della “ciaccona”, perché i ragazzi capiscono, anzi già fanno. Bisogna fidarsi di Grotowski, “fare è sapere”, sennò bisogna darsi alla politica, come dice Claudio Morganti. È necessario che esista un cuore ma bisogna evitare in assoluto che diventi il coro dei parenti che vanno a vedere il loro nipote al saggio, lo fotografano e con la loro telecamerina mentale lo vedono come in televisione. Questo è da eliminare, è invece da incoraggiare la situazione di straniamento del pubblico.
Futura umanità
L’Internazionale spaventa per l’incontro utopico con la rivoluzione e infatti è un lutto in Eresia, un lutto di cui i giovani sono portatori. Loro stessi dovrebbero re-inventarsela, non tanto per dare una speranza, ma per restituire un senso di rappresentanza nel gioco dell’umanità: nei giochi c’è una possibilità di descrizione di umanità, di un corpo collettivo indefinito e infinito, senza passare per quelle tappe micidiali che sono il buonismo, la fede, l’ideologia. Sarebbe bello che ci fosse, all’interno di questo giocattolo, qualcosa che sia più loro, più “nascente”; che questa internazionalità fosse di generazione piuttosto che di popoli; che realizzino un loro totem e che questo non nasca lì, come accade invece nei campi-scuola dove i preti di campagna celebrano la loro esperienza. Quello che resta è un effetto di spensieratezza e allo stesso tempo di tristezza. Si avverte un senso di colpa, perché non c’è più attenzione, non solo personale ma attenzione politica. Ci si sente in colpa capitinianamente, perché loro, i bambini, i ragazzi e gli adolescenti sono la liberazione dell’uomo, la liberazione biologica, anche se poi non lo saranno veramente.
Piergiorgio Giacchè