Nell’estate del 2008 regnava l’incertezza sul futuro del festival di Santarcangelo. La cosa era sotto i riflettori perché quell’anno la manifestazione era acefala e tutti si attendevano una soluzione. Oggi, a tre anni di distanza, è di nuovo l’incertezza il tema di fondo che accompagna il futuro del festival. A prescindere dai motivi specifici che hanno portato a questo, la situazione odierna credo sia emblematica dell’Italia di questi anni. La crisi di cui tanto si parla in questi mesi è di due ordini, lo sappiamo bene: economico e culturale – è per questo che proprio il mondo dell’arte e della cultura ne risente in modo macroscopico ed esemplare. è ovvio che ci siano differenze tra le problematiche di aree geografiche più ricche e attente al sostegno dell’arte e le carenze di quelle più povere o peggio amministrate; eppure esistono degli aspetti ricorrenti.
L’attendismo è uno di questi, che ne nasconde uno più grande e spinoso: la difficoltà, quando non l’impossibilità, di progettare. Più che sprofondando, l’Italia si sta incagliando sempre di più a causa di un’evidente incapacità di immaginare il futuro. Perché mancano persone competenti, o nuove generazioni intelligenti da formare? Tutt’altro. Il problema risiede in uno dei tratti storici del nostro paese, che è il paese della pacificazione forzata che genera conflitto. In Italia le politiche culturali si possono sintetizzare nel seguente modo: diamo una briciola a tutti quanti, la cui consistenza varia in base al peso politico e alla visibilità. Era inevitabile che, davanti a una crisi economica, questa “pacificazione” si trasformasse in esclusione. Soprattutto generazionale.
Il sistema teatrale italiano è il risultato dell’accomodarsi di diverse generazioni di artisti in circuiti anch’essi diversi e non comunicanti tra loro. Stabili, stabili di innovazione, festival, eccetera. Ovviamente si tratta di una divisione grossolana, perché esistono artisti in grado di muoversi da un settore all’altro; ma nel suo schematismo è in grado di leggere uno stato delle cose, che si traduce nella grande difficoltà di accesso ai luoghi e alle risorse che queste ultime generazioni stanno incontrando.
Partendo da questi presupposti è ovvio che, in una società dove la creatività ha raggiunto una dimensione di massa, il teatro – che è l’arte antieconomica per eccellenza e che per esistere deve essere in qualche modo foraggiata – entri in crisi. Questa dimensione di precarietà diffusa infetta, inevitabilmente, anche la riflessione degli artisti e le loro estetiche, soprattutto di quegli artisti che, per nascita, si ritrovano dentro questa precarietà. Le compagnie più giovani, ad esempio, hanno risposto allo strozzamento del mercato e dei circuiti teatrali giocando la carta della riconoscibilità, in qualche caso addirittura della “brandizzazione”, marcando una forte inversione di rotta rispetto all’imperativo – anche troppo debordante – della ricerca a tutti i costi che ha caratterizzato i decenni precedenti. I gruppi con più anni di esperienza, che si sono affacciati a questo mondo quando ancora la crisi non c’era e hanno vissuto biograficamente un progressivo smottamento del mondo del teatro e dell’arte, denunciano in qualche modo anche loro una difficoltà. La si può leggere in maniera esplicita anche attraverso gli spettacoli, che mettono in scena lo sprofondare del sistema Italia (come il Titanic di Roberto Latini), o tornano a interrogare con insistenza – con esiti e prospettive anche molto diverse – i sistemi ideologici del pensiero forte (come gli ultimi progetti dei Motus o la scelta degli Artefatti di portare in scena Brecht).
Niente di nuovo sotto il sole, tutto sommato, perché il teatro ha sempre parlato delle criticità che attraversano la società. Eppure, mai come oggi è forte l’impressione che sia il teatro stesso ad esserne pesantemente attraversato a sua volta.
La crisi – e chi la gestisce – ci comunica che è finito il tempo della ricreazione. Che non ci sono più risorse per mantenere il mondo dell’arte allargando il cerchio a ogni nuova ondata di artisti. E tutto sommato si può essere perfino d’accordo, ma a un patto: occorre tornare a distinguere tra arte e comunicazione, tra teatro e spettacolo (alla maniera di Claudio Morganti), e dire in modo chiaro che il compito delle risorse pubbliche è sostenere il primo e non ottenere consenso attraverso il secondo. Se la crisi può essere almeno in parte rovesciata in un’opportunità, ciò è vero soprattutto sui modelli di gestione. Se esistesse un’effettiva mobilità delle compagnie attraverso i diversi circuiti; se si ripensassero le gestioni faraoniche di alcune strutture pubbliche; se le generazioni si parlassero e contaminassero anche nella gestione delle risorse; se si formassero nuove figure di operatori in grado di ripensare i modelli; forse un piccolo spostamento potrebbe avere luogo.
Nota: C’è un terzo aspetto della crisi, che non va sottovalutato, quello del linguaggio. Prendiamo come cavia questo stesso articolo: è facile immaginare che alla sua analisi sullo stato fatiscente del sistema culturale italiano potrebbero aderire un vasto numero di persone, compreso chi si è trovato in ruoli gestionali e ha tranquillamente perpetuato l’esistente anziché metterlo in discussione. Questo avviene perché nel nostro paese contestare lo stato delle cose a parole per poi conformarsi nei fatti è una pratica diffusa, praticamente endemica, da cui nessuno può dirsi totalmente immune. È vero, confrontarsi con una realtà così compromessa significa necessariamente fare a propria volta compromessi piccoli o grandi. Ma quello che a volte ci sfugge è che, nonostante la messa in crisi del lessico politico del Novecento, tra presa di coscienza e presa del potere può esistere uno scarto profondo.
Nell’estate del 2008 regnava l’incertezza sul futuro del festival di Santarcangelo. La cosa era sotto i riflettori perché quell’anno la manifestazione era acefala e tutti si attendevano una soluzione. Oggi, a tre anni di distanza, è di nuovo l’incertezza il tema di fondo che accompagna il futuro del festival. A prescindere dai motivi specifici che hanno portato a questo, la situazione odierna credo sia emblematica dell’Italia di questi anni. La crisi di cui tanto si parla in questi mesi è di due ordini, lo sappiamo bene: economico e culturale – è per questo che proprio il mondo dell’arte e della cultura ne risente in modo macroscopico ed esemplare. è ovvio che ci siano differenze tra le problematiche di aree geografiche più ricche e attente al sostegno dell’arte e le carenze di quelle più povere o peggio amministrate; eppure esistono degli aspetti ricorrenti.
L’attendismo è uno di questi, che ne nasconde uno più grande e spinoso: la difficoltà, quando non l’impossibilità, di progettare. Più che sprofondando, l’Italia si sta incagliando sempre di più a causa di un’evidente incapacità di immaginare il futuro. Perché mancano persone competenti, o nuove generazioni intelligenti da formare? Tutt’altro. Il problema risiede in uno dei tratti storici del nostro paese, che è il paese della pacificazione forzata che genera conflitto. In Italia le politiche culturali si possono sintetizzare nel seguente modo: diamo una briciola a tutti quanti, la cui consistenza varia in base al peso politico e alla visibilità. Era inevitabile che, davanti a una crisi economica, questa “pacificazione” si trasformasse in esclusione. Soprattutto generazionale.
Il sistema teatrale italiano è il risultato dell’accomodarsi di diverse generazioni di artisti in circuiti anch’essi diversi e non comunicanti tra loro. Stabili, stabili di innovazione, festival, eccetera. Ovviamente si tratta di una divisione grossolana, perché esistono artisti in grado di muoversi da un settore all’altro; ma nel suo schematismo è in grado di leggere uno stato delle cose, che si traduce nella grande difficoltà di accesso ai luoghi e alle risorse che queste ultime generazioni stanno incontrando.
Partendo da questi presupposti è ovvio che, in una società dove la creatività ha raggiunto una dimensione di massa, il teatro – che è l’arte antieconomica per eccellenza e che per esistere deve essere in qualche modo foraggiata – entri in crisi. Questa dimensione di precarietà diffusa infetta, inevitabilmente, anche la riflessione degli artisti e le loro estetiche, soprattutto di quegli artisti che, per nascita, si ritrovano dentro questa precarietà. Le compagnie più giovani, ad esempio, hanno risposto allo strozzamento del mercato e dei circuiti teatrali giocando la carta della riconoscibilità, in qualche caso addirittura della “brandizzazione”, marcando una forte inversione di rotta rispetto all’imperativo – anche troppo debordante – della ricerca a tutti i costi che ha caratterizzato i decenni precedenti. I gruppi con più anni di esperienza, che si sono affacciati a questo mondo quando ancora la crisi non c’era e hanno vissuto biograficamente un progressivo smottamento del mondo del teatro e dell’arte, denunciano in qualche modo anche loro una difficoltà. La si può leggere in maniera esplicita anche attraverso gli spettacoli, che mettono in scena lo sprofondare del sistema Italia (come il Titanic di Roberto Latini), o tornano a interrogare con insistenza – con esiti e prospettive anche molto diverse – i sistemi ideologici del pensiero forte (come gli ultimi progetti dei Motus o la scelta degli Artefatti di portare in scena Brecht).
Niente di nuovo sotto il sole, tutto sommato, perché il teatro ha sempre parlato delle criticità che attraversano la società. Eppure, mai come oggi è forte l’impressione che sia il teatro stesso ad esserne pesantemente attraversato a sua volta.
La crisi – e chi la gestisce – ci comunica che è finito il tempo della ricreazione. Che non ci sono più risorse per mantenere il mondo dell’arte allargando il cerchio a ogni nuova ondata di artisti. E tutto sommato si può essere perfino d’accordo, ma a un patto: occorre tornare a distinguere tra arte e comunicazione, tra teatro e spettacolo (alla maniera di Claudio Morganti), e dire in modo chiaro che il compito delle risorse pubbliche è sostenere il primo e non ottenere consenso attraverso il secondo. Se la crisi può essere almeno in parte rovesciata in un’opportunità, ciò è vero soprattutto sui modelli di gestione. Se esistesse un’effettiva mobilità delle compagnie attraverso i diversi circuiti; se si ripensassero le gestioni faraoniche di alcune strutture pubbliche; se le generazioni si parlassero e contaminassero anche nella gestione delle risorse; se si formassero nuove figure di operatori in grado di ripensare i modelli; forse un piccolo spostamento potrebbe avere luogo.
Nota: C’è un terzo aspetto della crisi, che non va sottovalutato, quello del linguaggio. Prendiamo come cavia questo stesso articolo: è facile immaginare che alla sua analisi sullo stato fatiscente del sistema culturale italiano potrebbero aderire un vasto numero di persone, compreso chi si è trovato in ruoli gestionali e ha tranquillamente perpetuato l’esistente anziché metterlo in discussione. Questo avviene perché nel nostro paese contestare lo stato delle cose a parole per poi conformarsi nei fatti è una pratica diffusa, praticamente endemica, da cui nessuno può dirsi totalmente immune. È vero, confrontarsi con una realtà così compromessa significa necessariamente fare a propria volta compromessi piccoli o grandi. Ma quello che a volte ci sfugge è che, nonostante la messa in crisi del lessico politico del Novecento, tra presa di coscienza e presa del potere può esistere uno scarto profondo.