Zachar Prilepin, classe 1975, arriva in Italia quando in Russia ha appena vinto il premio “Supernatsbest” – 100mila dollari: un’economia su di giri! – per il miglior libro di prosa del decennio, con il romanzo
Грех (“
Peccato”, non ancora tradotto in italiano) e scritto diversi libri di successo. Intellettuale e militante nei partiti di opposizione al governo russo, ha pubblicato nel 2005 il suo primo libro,
Patologie, edito in Italia quest’anno, in occasione del Salone del Libro di Torino, per merito della casa editrice
Voland. Il romanzo racconta la storia di Egor Taševskij, soldato dei corpi speciali russi, gli OMON, dal momento in cui viaggia in elicottero verso Groznyj al momento in cui, stremato dalla guerra, torna a casa. (Non) fa male ripercorrere, qualche anno più tardi, le strade cecene: significa ricordare «la politica antiterrorismo di Putin» e la sordità europea davanti a quella bugia di regime denunciata – fino alla fine – da Anna Politkovskaja. I racconti del massacro di Beslan in Ossezia del Nord, della strage nel teatro Dubrovka a Mosca, delle due guerre contro la Cecenia hanno avuto una certa attenzione, anche a posteriori, in seguito all’assassinio della Politkovskaja. I reduci di entrambe le fazioni hanno scritto e provato a restituire l’orrore: l’“italiano” Nicolai Lilin in
Caduta libera, con esiti incerti, e tra le uscite più recenti
La guerra di un soldato in Cecenia di Arkadij Babčenko. Collaboratore, come Prilepin, della “Novaja Gazeta”, ha commentato laconicamente che sia i ribelli ceceni sia i soldati russi dichiarano: «voi avete ucciso noi», come a segnalare un cammino ancora molto lungo per una comprensione reciproca.
Ciò che rende interessante
Patologie è il modo in cui Prilepin riesce a oltrepassare l’orrore – tutt’altro che spazzandolo sotto il tappeto – collocandosi nel panorama della letteratura di guerra, per sfuggirne tuttavia immediatamente. Le vicende di
Patologie probabilmente si riferiscono alle memorie, rielaborate in romanzo, della prima guerra cecena: il periodo in cui Prilepin, dal 1996 al 1999, è stato sotto le armi – anche se, come tiene a dichiarare, «non ha ucciso ceceni, non ha provato nemmeno un decimo delle passioni e delle patologie dei suoi personaggi». La narrazione è diretta e organizzata in un ritmo serrato che coinvolge le azioni militari ma anche i pensieri del protagonista: ne risulta un intreccio inconsueto tra la tragedia della guerra e un sistema di riflessioni legate al quotidiano che mette in luce l’assurdo inconciliabile di vita e morte. Gli uomini sono «carne da cannone», i corpi dei ribelli ceceni e dei soldati russi sono raccontati nella deformazione della guerra, continuamente aleggia l’incertezza di chi si trova costretto nelle spire delle domande ultime: «perché si muore?», «perché sono qui?». Se la questione diventa perché io sono vivo e il mio nemico no, ci aiutano le parole di Egor: «'Io ho ammazzato un uomo’, penso stancamente e non so come continuare il pensiero»; il blocco è totale.
L’impasse non è dettata dalle condizioni politiche o militari, ma da aspetti mentali legati all’ossessione. L’elemento cruciale che rende altro questo romanzo dal cliché delle cronache dal fronte è il racconto, sviluppato in parallelo, di Daša, la ragazza di cui Egor è innamorato quanto geloso. Egor va in guerra in Cecenia, la sua condizione è quella di un individuo gettato a sopravvivere tra i cadaveri, la possibilità di rimanere sano è affidata al dialogo con i ricordi. Prilepin svela progressivamente qualcosa di più inquietante: il rapporto di Egor e Daša è altrettanto segnato dalla patologia: le relazioni, i rapporti affettivi non sono una zona franca. Il carattere pregevole del romanzo sta nel montaggio di sequenze parallele che raccontano un uomo incastrato in una duplice dimensione inquinata dall’angoscia e dalla paura: il rapporto con la fidanzata intossica Egor almeno quanto la guerra in Cecenia. Daša racconta a Egor di aver avuto, prima di lui, ventisei uomini, e lui entra in un tunnel di ossessioni che lo imprigionano: davanti all’ineffabilità della propria ragazza di poco più di vent’anni non riesce che a chiudersi in un compulsivo «voglio avere qualcosa di mio!». Per Prilepin la questione del possesso è centrale visto che Egor sceglie di ingabbiarsi in un egoismo polimorfo e perverso: «‘Tu mi hai derubato!’ Avrei voluto dire e non riuscivo. Derubato o donato?». La sola scoperta dell’esistenza di un diario di Daša precedente alla loro relazione lo turba profondamente, e il desiderio di penetrare quei segreti lo porta a una ricerca che lo porterà fino alla discarica della città in preda alla bramosia di possedere, a prescindere dalla certezza di un affetto vicendevole. Le pagine dedicate a Daša sono numericamente inferiori, ma non si sente uno sbilanciamento, perché chiariscono tutto il resto del romanzo. Anche il semplice spaccato di mondo universitario che compare nelle vicende di Egor e Daša restituisce in pieno l’insensatezza di un sistema che gira a vuoto: sembrano i fotogrammi di un breve racconto che si inseriscono chirurgicamente nel quadro generale del romanzo e mantengono la preziosa ferocia di uno sguardo neutro. Non è in nessuna misura «un romanzo documentario o di denuncia» nel senso classico, ma un libro che decide di affrontare una questione di caratura sicuramente maggiore: la condizione dell’uomo che porta con sé le nevrosi irrisolte del novecento, aggravando la propria situazione ma cercando comunque di sopravvivere. Egor segue un solco obbligato: in guerra, braccato dall’orrore in agguato ad ogni pagina, solo raramente si aprono spazi di fuga almeno ideale. Durante la preparazione alla battaglia, ben descritta come un rito di iniziazione all’assurdo e all’ineluttabile, Prilepin lascia uno spiraglio di luce nell’atmosfera cupa dei villaggi ceceni: «Adesso prendo la rincorsa e sbatto la testa contro il cassone! Poi dico è stato un attimo di follia…». Non c’entra solo la guerra, descrive qualcosa di più: l’obiettivo dev’essere quello di guardare alla possibilità, anche remota, di “riderci sopra”, anche di fronte all’ampia e complessa vicenda del superamento dei propri limiti di resistenza e del conseguente rischio di franare.