Quando ormai i 15 minuti di celebrità sono diventati 24 ore, ci si chiede cosa sia ancora in grado di fare la finzione. Quando la rappresentazione è diventata grammatica quotidiana di quasi tutte le nostre interazioni, ci si chiede che portata possano avere l’arte e il teatro, luoghi naturali di ciò che viene rappresentato. In queste note, vorremmo provare a fare un piccolo punto delle ricerche teatrali che ci sembrano mettere al centro tali domande, a partire dalla visione di alcune opere presenti a Santarcangelo 12. Si tratta quindi di appunti di lavoro vincolati a un contesto specifico di osservazione, ma che possono forse avere una portata più ampia per il carattere di ricerca internazionale del festival. Al centro sta lo spettatore, e non è una novità. Dopo che i vaticini di uno spettacolo integrato si sono verificati, dopo che il modo di stesso ragionare ha subito un mutamento radicale da quando ci siamo abituati a pensare per reti, interazioni, commenti e formule “social”, pare sempre più evidente lo sforzo di molti artisti di riportare lo spettatore al centro, o meglio al suo posto. Non mero consumatore di immagini-simboli-messaggi, ma parte attiva chiamata a prendere parte alla rappresentazione, a completarla, a conferirle un senso profondo attraverso un lavoro da svolgere. Niente di nuovo, si dirà, anche perché non c’è stato un maestro del teatro che non abbia in qualche misura affermato idee simili. Eppure negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di proposte sceniche che chiamano direttamente in causa il pubblico per farlo divenire un elemento della composizione drammaturgica, al punto che, senza l’intervento chi guarda, la drammaturgia dello spettacolo non si potrebbe svolgere. Basti pensare, citando solo due esempi legati alla storia recente del Festival, agli spettatori bendati e inseriti in un gioco di pedine fra noir e teatro sensoriale in Enimirc di Fagarazzi e Zuffellato, o al Domini Públic del catalano Roger Bernat, in cui ogni spettatore, indossando cuffie acustiche e rispondendo gestualmente a domande in audio, diventava al contempo attore per gli altri partecipanti e spettatore delle azioni altrui. A Santarcangelo 12 abbiamo assistito ad alcune possibili forme della partecipazione, e su queste conviene soffermarsi.
Avvicinare l’arte ai cittadini, e viceversa
Abbiamo assistito, nel luogo simbolo della comunità cittadina, a documentari di ricerca, a film di animazione italiani e internazionali, a spettacoli progettati per circuitare all’interno di sale teatrali. In Piazza Ganganelli, durante Santarcangelo 12, si sono avvicendate queste e altre proposte, in un tentativo che non ha in nessun caso scelto la via di una mediazione “al ribasso”. Cosa è popolare? Quando ci troviamo di fronte a una proposta artistica “per tutti”?
Il dramma dei nostri anni, che viviamo probabilmente un po’ tutti, è l’essere totalmente spaesati di fronte a domande simili. Chi programma le arti sceniche contemporanee, e anche chi le produce, si confronta quasi sempre con platee composte da poche centinaia di persone quasi sempre già persuase della bontà delle proposizioni artistiche in questione, o almeno con alle spalle un bagaglio di visioni cospicuo all’interno dell’orizzonte linguistico che incontrerà. Stiamo ovviamente parlando di un problema italiano e che andrebbe affrontato nel suo complesso, a partire dalla concezione generalmente conservativa che questo paese ha della cultura, dai ministeri alle circoscrizioni. Senza voler tentare strade rivoluzionarie, ed evitando discorsi massimalisti che rischiano sempre di scivolare nel populismo, la scelta della direzione di Santarcangelo è stata chiara, e soprattutto non ha tentato astruse previsioni rispetto all’identità del “cittadino medio”. Non si ci si è quindi messi nei panni di una fetta di popolazione che non si conosce, rischio sempre in agguato quando si discute dello scollamento fra arti contemporanee e cittadinanza, ma si è scommesso sulle proprie persuasioni e convizioni. In piazza si sono programmate opere “alte”, cioè quasi mai abituate a confrontarsi con un pubblico indeterminato, che giunge sul posto senza una precisa domanda di fruizione (dai Codice Ivan a César Brie, dal ballo liscio con la musica udibile solo dai ballerini degli Zapruder ai documentari di Zimmerfrei). Ci è sembrata una sfida altissima, una delle poche credibili se si vuole immaginare un pubblico vasto senza perdere la propria identità. Una sfida per adesso vinta, almeno a giudicare dalla cospicue presenze in piazza. Siamo certi che la direzione artistica avrà ora fra le mani qualche risposta alle due domande poste in precedenza, e che saprà farle proprie nei prossimi anni, alla ricerca di quel delicatissimo equilibrio fra verticalità dell’opera d’arte e (presunta?) orizzontalità delle aspettative di una piazza.
Forme: fare durante e fare prima
Se quella appena descritta era una delle più chiare proposte del festival, perché aveva a che fare con la presenza dell’arte in uno spazio pubblico (senza dimenticare che Santarcangelo, dal 2009, ha ripristinato la dicitura di “Festival internazionale del teatro in piazza” nata nel 1971), si può provare a guardare ora in maniera più dettagliata alcune opere, per provare a comprendere meglio quali siano le richieste che vengono fatte allo spettatore. Anticipiamo le conclusioni di questo paragrafo: gli spettacoli che ci sono sembrati più convincenti andavano nella direzione di includere il pubblico nel processo di creazione, ma non per farlo partecipare a una creazione collettiva. Si tratta di mettere lo spettatore in una condizione prossima a quella dell’attore, ovviamente tenendo conto di un non-professionismo di partenza. Per esempio Richard Maxwell, che con Ads ha filmato una trentina di “credo” dei cittadini di Santarcangelo per proiettarli a teatro utilizzando un’antica tecnica fantasmatica degli albori del cinema. Ma anche Virgilio Sieni, che in Sogni ha condotto un percorso a metà fra laboratorio e prove professionali modellando corpi non abituati a stati di rappresentazione organizzata, dando loro una forma funzionale alla sua verticale visione dell’arte. Un po’ come ha fatto Richard Maxwell, nell’individuare alcune gabbie in apparenza neutre, a ben vedere nettamente influenti sull’esito finale (i cittadini avevano a disposizione quattro minuti a testa, dovevano dire il loro credo salendo su un piccolo podio, dovevano evitare di leggere, per quanto possibile). Al di là dei singoli esiti, ci interessa in questo caso soffermarci su una modalità che prevede un investimento di fatica, di impegno, di messa in discussione personale molto alto. A partire da questa constatazione, risulta quasi naturale che un possibile esito “riflesso” vada nella direzione di un coinvolgimento orizzontale: i Santarcangiolesi hanno visto a teatro una parte della loro comunità, si sono sentiti chiamati in causa; gli spettatori di altre zone d’Italia e non solo sono stati, in qualche misura, spinti a interrogarsi sulla rappresentatività di quelle persone. Cosa avrei detto io al posto loro (nel caso di Maxwell)? Come si può ottenere una forma in apparenza così netta e pulita, pur lavorando con non professionisti (nel caso di Virgilio Sieni)? Queste due opere, insomma, pur tenendo ferma la solitudine dello spettatore di fronte all’opera, sono riuscite ad avvicinare l’arte ai cittadini, attraverso una creazione processuale che non dava per scontato il luogo in cui le opere nascevano. Le persone di Santarcangelo, e non solo, hanno cioè pensato al teatro come a qualcosa che li può riguardare da molto vicino.
Un caso di “partecipazione” con presupposti molto diversi è CMMN SNS PRJCT di Kalauz/Schick, emblema di un certo modo di fare teatro che costruisce per lo spettatore un meccanismo drammaturgico che lo ingloba. Si diceva prima di Roger Bernat e del suo Domini Públic, ma moltissimi potrebbero essere gli esempi, per altro non solo provenienti dal teatro, se già alla fine degli anni ’90 lo studioso Nicolas Bourriaud, discutendo di arti contemporanee, parlava di “estetica relazionale”. Nel lavoro del duo svizzero-argentino veniamo accolti da un’asta gratuita dove, al semplice invito «chi vuole questo», lo spettatore più lesto nell’alzare il braccio si aggiudica oggetti sistemati in fila su un espositore. Tante altre sono le trovate relazionali dello spettacolo: una “vera” asta in cui il pubblico può aggiudicarsi i diritti per rappresentare l’opera a cui sta assistendo; un ripetuto quiz in cui i due performer mimano scene di alcuni film, o leggono spezzoni di libri, chiedendo a chi guarda di indovinare. Dopo l’asta, i due perfomer si sono presentati in mutande: «Qualcuno del pubblico può prestarmi i pantaloni? Posso pagare!», e via dicendo fino alla completa vestizione.
Il problema di una simile proposizione, ma ci sentiamo di dire di una forma che in generale punta a un coinvolgimento diretto, quasi non mediato, sta nell’esilissima linea che chi guarda dovrebbe percorrere: rispondere alle richieste e così “fare” in prima persona, mettersi in gioco all’interno del patto che viene proposto e, allo stesso tempo, tentare una riflessione sui meccanismi, sull’eterodirezione alla quale sceglie di sottostare, e così prendere coscienza della propria condizione di “manipolato”. In una forma siffatta si tratta quasi sempre di camminare su una corda sospesa nell’aria: in CMMN SNS PRJCT da una parte si potrebbe cadere in una predica che si risolve nel noto “consumo, dunque sono”, e che aggiunge davvero poco alla consapevolezza che più o meno tutti abbiamo di vivere in una società dell’appropriazione indotta, dell’accumulo come identità; ma anche andando dall’altra parte il rischio evidente è di cadere in un giocattolone partecipativo, davvero poco distante da un quiz a premi televisivo o da altre confezioni di intrattenimento. Ed evocare Marx, nel tono colloquiale che adottano i pur bravi performer, anche quando dialogano tra loro, non fa altro che peggiorare la situazione.
L’agio nel disagio
Il discorso, a questo punto, deve aprirsi per cercare di vedere qualcosa oltre le forme, per provare a comprendere quali proposte si annidino negli orizzonti linguistici. Da questo punto di vista, già leggendo la presentazione di Rodolfo Sacchettini scritta in uno degli editoriali del festival, ci siamo accorti di aver attraversato due orizzonti, probabilmente necessari l’uno all’altro. Una visione solare, in cui il cittadino-spettatore entra a teatro e ne esce rafforzato rispetto alle sue credenze sulla comunità, rispetto al potere dell’arte di ridare valore al “comune”: le visioni trascendenti di Sogni di Virgilio Sieni, che trasfigurano il quotidiano in gesto misterico, ma anche la proposta “democratica” che si evince dal finale del Solo Goldberg Improvisation dello stesso coreografo fiorentinto, in cui sembra concretizzarsi la persuasione di far danzare più persone possibili, quando alcuni spettatori lo affiancano sul palco.
Nel mezzo potremmo forse collocare l’ambigua proposizione di Ads di Maxwell: i quattro minuti concessi a trenta cittadini rimandano parole intessute molto spesso di luoghi comuni (si crede nell’amore, nelle cose semplici, nelle proprie piccole azioni), un’immagine in cui chi parla non avverte mai ferite o crisi, perché il male sta sempre fuori, negli altri. Dapprima si ascolta sghignazzando, poi monta un fremito di turbamento, e ci si chiede se tale ritratto sia proprio quello del mondo di oggi, quindi anche il nostro.
Il tentativo che si pone su un piano opposto è Tabarin Citadin, progetto commissionato dal festival alla compagnia Menoventi, e al quale hanno partecipato, in ordine di apparizione, Kyon Teatro, Vokodo, Mauro Stagi, Quotidiana.com, Astorri-Tintinelli, Alessandro Bedosti, Kinkaleri, con contributi estemporanei ma particolarmente densi di Gipi e Walter Siti. Si partiva da un assunto progettuale, discusso insieme al festival: guardando al filone di un certo cabaret di inizio ’900, al tentativo dell’arte di chiudersi in una sala mentre fuori scoppiano le bombe, cosa accade se nel 2012 un gruppo di artisti invita gli spettatori in un dancing, con l’obiettivo di attraversare il clima plumbeo dei nostri anni? La proposta si è manifestata in una serata molto attesa, anticipata da uomini-sandiwich che si aggiravano per il paese recando enigmatici messaggi sul valore dell’esperienza, e da un’urna al punto informazioni in cui si raccoglievano donazioni «per gli spettatori». Da subito, entrando, si percepisce che chi guarda non si deve sentire “ a casa propria”. Si paga un biglietto il cui ammontare è arbitrariamente determinato da una ragazza all’ingresso, che sceglie in base a logiche a noi oscure. Poi ci vien chiesto di seguire delle linee rosse che delimitano la platea, salvo scoprire che, stando nella regola, si finisce in un vicolo cieco. Finalmente prendiamo posto e la scena si apre con i vocalizzi di un dj che bene starebbero nella folla del Pineta (Vokodo), con tutti i componenti del Tabarin che si dimenano su e giù dal palco. Quello che vorremmo sottolineare, lasciando per un attimo da parte gli intenti del nucleo artistico e del festival, è la sensazione di essere nel mezzo di un’opera che imbocca una strada opposta rispetto a molti tentativi artistici “al tempo della crisi”. Da un lato non c’è nessuna via salvifica, nessuna possibile strada che contempli un “credere” in un qualsivoglia destino comune, in un tentativo di “fare insieme”: al massimo, ma solo dopo due ore di tormento, può giungere la sprezzatura del sublime, in un canto lirico che emerge nel buio. Dall’altro, non c’è adesione né mimesi rispetto a linguaggi della crisi e dell’attualità, se si eccettua il pezzo dei Quotidiana.com. Per dire dei tempi grigi la via scelta in questo Tabarin è mettere fuori dalla porta l’italietta mediatica, per concentrarsi su figure quasi sempre solitarie, presentate per frammenti di racconto non introspettivi, in cui è la superficie visibile e udibile a fare “la storia”, non quello che dovrebbe esserci sotto: così ecco il pugile Mauro Stagi che si percuote il viso, in una sequenza di gesti ripetuti in cui si mescolano l’autocommiserazione e il desiderio di affermarsi; la breve situazione drammatica di Astorri-Tintinelli, in cui uno scalgagnato trio di artisti, gli “Hamlet Machine”, un po’ band e un po’ gruppo teatrale, tenta di dare voce a improbabili idee creative, dove se si trova una pistola occorre utilizzarla, un po’ reality e un po’ Cechov, pur sapendo che tale gesto diminuirà ancora di più il valore collettivo di un’impresa già allo sfascio. Il beat vocale di Stagi funge da base per una truce dichiarazione d’intenti sulla melodia di Mameli («Io non piango quando scoppia una guerra [...] io non piango quando un uomo s’ammazza, il suo sangue non mi fa tenerezza»).
Le scene si susseguono in un cabaret nero che sfida la nostra sopportazione, a tratti provocandoci, come nel “numero” di Kinkaleri, una composizione vocale di insulti gridata da un gruppo di persone che indossano lenzuoli da fantasmi (in apparenza rivolti al pubblico, ma in realtà destinati da tanti Romei alle Giuliette morte. Forse si poteva lavorare per raggiungere una maggiore chiarezza, l’ambiguità sarebbe probabilmente rimasta intatta). Il progetto tenta una via estremamente affascinante, e difficilissima. È possibile mettere chi guarda volontariamente a disagio? Si può invitare qualcuno a casa propria, come richiede il rito del teatro, e una volta entrato progettare a tavolino il turbamento di chi è ospitato? Non abbiamo risposte, solo possiamo notare l’estremo coraggio di un procedere simile, che alza il tiro della scommessa come raramente capita di vedere nel teatro di oggi, sottoponendosi dunque a un grado di rischio molto alto. Il rischio che tale “disagio” venga scambiato per un malfunzionamento del meccanismo, e che lambisca dunque la noia data dalla ripetizione, come è accaduto per esempio nell’emergere un po’ troppo meccanico delle figure-personaggi di raccordo, che non sono riuscite sempre a innescare il loro potenziale di ferocia: la bigliettaia “iniqua” (Chiara Verzola, Kyon Teatro) che a tratti tornava nel pubblico e lo appellava con strafottenza, chiedendogli di giocare a “un-due-tre-stella” o invitandolo a vedere un breve filmato. Tenere lo spettatore in pugno trattandolo male è operazione molto complessa, perché alla prima avvisaglia di ripetizione, di “già visto”, risulta molto difficile prendere sul serio la cattiveria. Così come molto complesso, immaginiamo, deve essere per chi recita disprezzarsi, fare leva su meccanismi che appaiono volutamente spuntati, triti, come un clown che abbia esaurito i suoi lazzi. È il caso della presentatrice della serata (Rita Felicetti, Kyon Teatro), quasi sempre intenta ad occupare il tempo in attesa del prossimo numero che tarda ad arrivare, a scandire l’orario marcando un tempo che (non) passa, a ripetere l’ossessione ripresa da Walter Siti («Se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensioni dell’eros contro il grigio della rinuncia?»). Solo verso la fine, in una sorta di presa di consapevolezza dell’esaurimento del ruolo dell’arte, della sua inutilità, il baratro della presentatrice diventa anche il nostro, mentre la sua collega la prende a sputi. E, ripensando all’intera proposta, vien da pensare che la sfida di Menoventi si sia scontrata con una simile “mancanza di ferocia”: il limite fra fastidio e disagio è molto sottile, e buona parte della scommessa di Menoventi risiedeva probabilmente nel far vivere un disagio che fosse in grado di insinuarsi nel petto degli spettatori. Vien allora da pensare che se se il tormento di questi personaggi fosse risultato come un pugno nello stomaco, come un guardarsi dentro senza sconti per mettere a nudo quel poco che sono quelle figure sul palco (e quindi che siamo anche noi), allora questo Tabarin sarebbe risultato molto più affilato. Ma come si trasmette un disagio del personaggio, senza psicologismi, quasi senza storia, senza sfruttare una via effettistica e gridata cara ad alcune star del teatro contemporaneo? Probabilmente attraverso un arco di turbamento che cresce, attraverso un climax di emozioni negative, come ha tentato il Tabarin senza riuscirci completamente, anche per alcune “distrazioni” drammaturgiche, fisiologiche in un procedere che implica la coesistenza di poetiche diverse, di gruppi consolidati (per esempio il colloquiale-stralunato dei Quotidiana.com, che hanno scelto una via tutta schiacciata sull’attualità, creando parecchia confusione, o come l’emergere di una battuta greve a sfondo sessista lanciata dal dj improvvisamente sceso dal palco, che riporta la tensione su un registro da sfottò proprio mentre si tentava di portarla nel recessi del turbamento).
Progetti per il futuro: fra disagio e partecipazione?
Nonostante le perplessità sull’esito, crediamo che il Tabarin sia uno di quei progetti in cui il processo e le premesse valgono tanto quanto la loro concretizzazione scenica, per tutti i motivi di rischio che abbiamo tentato di dire. Resta dunque una domanda finale, la cui risposta è una ricerca da portare nel futuro. Negli anni che stiamo vivendo, e considerando anche le varie tensioni della ricerca performativa contemporanea, è più importante creare le condizioni affinché lo spettatore partecipi a un’esperienza artistica e ne esca in pace, oppure fare in modo che chi guarda non si senta a casa propria proprio mentre sta guardando? Santarcangelo ha mostrato entrambe le strade, probabilmente privilegiando la prima. Il merito di Tabarin sta nell’aver percorso una via di non pacificazione, di avere dimostrato alle trecento persone che erano presenti al Dancing Tre Stelle che l’arte può essere non conciliante, e che di quest’arte abbiamo bisogno quando ci aiuta a guardare le cose con quella ferocia necessaria per vederci chiaro. Probabilmente non si dà arte feroce senza la sua controparte pacifica, e viceversa. Forse è una questione di accenti: oggi, nel nostro mezzo metro quadro di terra, nelle nostre città, nel mondo, ci è più utile il disagio o la pace?