Non è un concerto di musica contemporanea, ma nemmeno uno spettacolo teatrale. Suite A lavora sull’ibridazione fra teatro e musica, generando atmosfere sonore e visive che permettono allo spettatore di perdersi nelle proprie suggestioni. Abbiamo incontrato Mirto Baliani e Marco Parollo, i due professionisti del sound designing che hanno dato vita al progetto Fuocofatuo, di cui Suite A costituisce la prima parte.
Il potere evocativo del suono è forse la base di Suite A. Dove volete trasportare lo spettatore di questo vostro primo lavoro? Quanto è guidato dalle immagini che voi create?
Mirto Baliani: Il nostro spettacolo è un lavoro di ricerca e sperimentazione sul suono. L’aggiunta di un discorso, di immagini e di contesti l’abbiamo pensata solo in un secondo momento. Tutto è nato infatti dall’esplorazione delle differenti possibilità sonore degli oggetti e dalla ricerca su come generarle e captarle. Siamo partiti dalla costruzione di un sistema di piastre elettriche, dalle quali volevamo trarre quanti più suoni possibili. Volevamo anzitutto fare musica con questi strumenti: solo in un secondo momento abbiamo composto la partitura. Ci siamo posti dei paletti: non essere noi a eseguire, ma generare tutto con la forza del calore. Quando il catalogo di sonorità è stato definito e ordinato, i primi spettatori cui abbiamo sottoposto uno studio del nostro lavoro hanno sviluppato una serie di immagini parallele alla musica. Desideravamo lasciare che questa sorta di film fosse del tutto personale; abbiamo perciò inserito una sola indicazione nel foglio di sala: la divisione in parti dell’opera, quasi fosse il programma di sala di un concerto. Scrivere altro avrebbe significato indirizzare gli spettatori verso un preciso tipo di visione, spingendoli a scartarne delle altre. Dialogando con loro ci siamo però accorti che alcune immagini ricorrono e sono comuni alla maggior parte del pubblico: il treno, il vapore, la cucina, ma anche l’infanzia e l’attesa. Tutto però dipende dal background culturale del singolo: i musicologi, ad esempio, sentono risuonare citazioni della musica contemporanea, mentre gli ascoltatori più “profani” avvertono elementi sonori propri della vita comune. Anche il luogo della rappresentazione contribuisce a influenzare le suggestioni dello spettatore. Qui a Santarcangelo la sala di Porta Cervese è più illuminata rispetto ai teatri, dove il maggiore buio garantisce un effetto scenico più artificioso. Le nostre location preferite per Suite A sono i luoghi grandi e industriali, che lasciamo così come sono, scarni e crudi. In questi desolanti spazi i nostri oggetti di vita comune (caffettiere, teiere, pentole) acquistano una ulteriore chiave di lettura: quella postindustriale.
In scena c’è una sorta di alchimista che manipola gli oggetti, calibrando un’esperienza sonora che avrebbe potuto essere puramente meccanica, senza la presenza diretta dell’elemento umano.
Mirto Baliani: L’idea iniziale di questo progetto era disporre di dodici piastre da comandare dalla cabina di regia, senza nessuno in scena, e lasciar suonare gli oggetti solo grazie al calore avviato meccanicamente. Purtroppo, per motivi sia tecnici che economici abbiamo dovuto ridurre il numero di piastre. Di conseguenza è diventata necessaria la presenza di una persona che alternasse gli oggetti sulla cucina. Durante gli studi ci siamo accorti che questa figura non disturba, perché non fa virtuosismo con utensili domestici, bensì è dotata di una precisa geometria tecnica composta da 45 movimenti da eseguire.
Quindi questa persona non è né esecutore né compositore?
Marco Parollo: È solo un assistente tecnico. Leggiamo Suite A come un concerto: i musicisti sono le piastre, gli strumenti sono gli utensili da cucina e la partitura è il ritmo delle accensioni. Ma in ogni concerto c’è anche il tecnico che sposta il microfono o attacca l’amplificatore, e che nel nostro spettacolo ha un ruolo di assistenza ai musicisti-piastre. Qui a Santarcangelo la luce mostra la figura intera, ma nei teatri si vedono solo le sue mani che affiorano dal buio.
Mirto Baliani: Mentre Marco è in scena, io dalla regia applico al suono riverberi e altri effetti, oltre che accendere e spegnere le piastre. Al resto ci pensano gli oggetti, che diventano belli come un violino suonato da un violinista. La rappresentazione non è mai uguale alla volta precedente, poiché la partitura è rigida e razionale, ma non esclude quelle variazioni imprevedibili caratteristiche di qualsiasi esecuzione.
La vostra drammaturgia nel foglio di scena è definita “inaudita”, ma non è certo inedita. Quali sono le esperienze musicali a cui siete più debitori?
Mirto Baliani: Dalla tradizione musicale classica proviene la rigidità della partitura. Ma i riferimenti sono tanti, soprattutto allo scenario contemporaneo, dato che siamo entrambi musicisti. L’importante per noi era la realizzazione di un progetto che accomunasse teatro e musica, due linguaggi spesso in lotta tra loro: anche quando la musica per il teatro ha una forte personalità, essa di solito è sovrastata dalla recitazione e dalla messa in scena. La sfida che abbiamo intrapreso in questo percorso è stata la ricerca della creazione di un teatro musicale, in cui l’adattamento drammaturgico venga scansionato da una partitura musicale che è il vero centro della rappresentazione. La storia che lo spettatore genera dentro di sé è creata dalla musica che evoca immagini. Il pubblico sente un concerto a tutti gli effetti, che però non starebbe in piedi in un luogo non teatrale. La registrazione di questa partitura, ascoltata da sola, è priva di senso.
Marco Parollo: Il nostro non è un concerto di musica contemporanea: se avessimo voluto concentrarci solo sul suono avremmo lavorato diversamente. I suoni di Suite A ascoltati da soli non hanno lo stesso fascino generato dall’accompagnamento visivo degli oggetti che li provocano: basta pensare a quanto sia diverso un tintinnio ascoltato rispetto alla visione del cucchiaio che lo provoca tremando contro una pentola. La combinazione tra suono e immagine porta lo spettatore da un’altra parte; se poi ci aggiungiamo gli odori — come lo zolfo che si sente all’inizio — il coinvolgimento è totale.
Mirto Baliani: Ogni spettatore tende sempre a prediligere uno dei due aspetti, visivo o sonoro, del nostro lavoro. C’è chi non riesce a chiudere gli occhi perché vuole vedere ciò che accade, e c’è chi preferisce astrarsi dagli oggetti e aprire gli occhi solo ogni tanto per vedere cosa è cambiato sulla scena. Nessuna di queste due modalità di fruizione è migliore dell’altra. Il bello è che Suite A sta piacendo sia agli “addetti ai lavori” che masticano musica contemporanea, sia alle casalinghe affascinate dai suoni che ricordano loro l’infanzia e l’atmosfera quotidiana della cucina: con Suite A la memoria e il ricordo affiorano con forza, forse perché sono elementi rassicuranti rispetto ai suoni di cui non si riesce a identificare l’origine.
Alla fine dello spettacolo la cucina è piena di bollitori che fischiano per diversi minuti. Poi si illumina la parete in fondo, in cui sono collocate altre decine di bollitori, caffettiere e bicchieri: il vostro progetto continuerà con questi utensili?
Marco Parollo: Quelli sono proprio gli oggetti che useremo nella Suite B: ognuno ha già la sua parte e la sua posizione in scaletta. In origine abbiamo scritto un’unica partitura, ma abbiamo dovuto tagliarla per mantenere una certa coerenza sonora. Molti dei brani che non abbiamo rappresentato in Suite A verranno utilizzati nella Suite B.
Il nome del vostro progetto è Fuocofatuo. Da dove deriva?
Mirto Baliani: Durante la preparazione del lavoro pensavo spesso al focolare domestico, che ha caratterizzato l’essere umano fino a un centinaio di anni fa. In passato le cucine erano sempre dotate di un camino attorno al quale la famiglia si raccoglieva alla fine della giornata, per raccontare le proprie storie. L’aggettivo “fatuo” indica l’addomesticamento del fuoco tramite le piastre, che grazie alla corrente elettrica ottengono lo stesso potere della fiamma, ma senza la sua presenza. Oggi non ci sono più racconti intorno al fuoco: non è certo facile raccontare una storia intorno a una piastra elettrica.
Entrambi avete lavorato insieme per la compagnia Fanny&Alexander. In particolare Mirto realizza tuttora le loro colonne sonore, tra cui quella di T.E.L. che è stata pubblicata in vinile e costituisce un oggetto narrativo autonomo. Cosa si può raccontare con la musica?
Mirto Baliani: La musica è lo strumento più evocativo all’interno della nostra società bombardata di immagini. Noi che lavoriamo con la musica conosciamo bene tutti i campi di esplorazione del suono. Come compositore per il teatro, il mio padrone è la messa in scena: non devo dimostrare di essere un bravo musicista, bensì contribuire alla buona riuscita dello spettacolo. Questo lavoro di accompagnamento alle immagini teatrali costituisce un esercizio stimolante. Nel caso di T.E.L., la mia musica ha avuto una forza particolare: solitamente la colonna sonora per il teatro, essendo solo una parte di qualcosa di più grande, è funzionale ma non pubblicabile autonomamente.
a cura di Alex Giuzio