Fake For Gun No You, nuova parte del progetto All! di Kinkaleri, è l’indagine di una materia fisica che accoglie indistintamente sudore e acqua, che sceglie di farsi modellare e sfinire dalla fatica. Spazio più che adeguato per la performance, la Sala Liviana Conti ha ospitato l’alfabeto gestuale dei corpi di Simona Rossi e Jacopo Jenna, il loro recitare e reiterare lettera per lettera – posa per posa, Una Preghiera per il giorno del ringraziamento (A Thanksgiving Prayer) di William Seward Burroughs, voce della Beat Generation e saggista a cui l’intero progetto è rivolto. È il giorno di un Ringraziamento formale e afasico, durante il quale il suono lascia posto alla danza, lingua condivisa e personalissimo dialetto insieme. A tornare con costanza c’è un unico “grazie” avvilente, tra vocali slabbrate e consonanti ancorate al palato. Siamo pienamente invischiati in quella terra di mezzo che è sì tensione verso la libertà – ribellione di fronte ai vincoli della parola e dei dogmi della rappresentazione – ma che al contempo rischia di chinare il capo alle forme dittatoriali in cui ogni impeto anarchico si incarna.
Nel foglio di sala consegnato all’ingresso, prima che lo spettacolo inizi, vi è una delle frasi che i Kinkaleri traggono dal lessico poetico di Burroughs: “Essere liberi anche sotto tortura”, a questo anelano i corpi. Così si spiegano e si giustificano le secchiate d’acqua, gli spari a salve, la pelle nuda e vibrante di un busto femminile. Il dialogo tra i danzatori, fatto anche di improvvisazione e non sempre di reciproco ascolto, ingenera le immagini che sostengono la struttura della performance prima e dopo l’uscita dalla porta sul retro, verso l’esterno. Qui, al suono amplificato del canto delle cicale e dell’abbaiare di un cane lontano dallo spazio teatrale, il corpo di lui si muove tra le siepi e cerca di occultare la pistola; quello di lei, per contrasto, gioca all’assolo della nudità. Il tutto si svolge in una dimensione orizzontale, a un’altezza gravitazionale che spesso si confronta con lo superficie spaziale e con gli oggetti circostanti (mura, microfoni, pavimento), interrotta solo da quel momento apparentemente ludico, quando l’una sale – sorriso bambino sul volto e sguardo rivolto verso la platea – sulle spalle dell’altro. E il tempo non può che venir meno nel moltiplicarsi del non detto e del non udito. La sensazione è che la durata della performance, quei quaranta minuti indicati dal programma, avrebbero potuto protrarsi a oltranza, veder cambiare la luce e, perché no, lo stesso pubblico. Un pubblico alternativamente conquistato e abbandonato, spossato dal caldo romagnolo e forse spostato nel suo sostare a fianco della scena.