“In cosa credi?”. Una domanda, una risposta. La vita umana messa alla ribalta, con tutte le sue aspettative e le sue banalità. La rivendicazione di una presenza puramente umana all’interno di una società che la nega. Ecco cosa vorrebbe essere lo spettacolo Ads (abbreviazione di advertisement, pubblicità) di Richard Maxwell, commissionato appositamente dalla direzione di Santarcangelo•12. Il regista e drammaturgo americano ha chiesto a un campione volontario (ripeto volontario) di una trentina di cittadini di rispondere con sincerità e sintesi (tempo concesso: 4 minuti) a una domanda che molti impiegano tutta la vita a sciogliere: “in cosa credi?” (What do you believe in?). La stessa domanda già posta in altre città del mondo dal 2010, quando a New York è iniziato questo ciclo ispirato al libro No Logo di Naomi Klein.
Le risposte con i “credo” in allegato sono state inviate via mail, un processo impersonale e pratico. Eppure in quelle lettere c’era qualcosa, qualcosa di pensato, qualcosa di estremamente personale. Queste parole hanno preso corpo e vita nella fase finale del progetto: i selezionati sono stati messi sul palco del Teatrino della Collegiata di Santarcangelo e hanno letto (recitato?) la loro risposta davanti alla telecamera.
La scena si apre su un palco spoglio, su di essa solo una scatola di legno, umile podio su cui salgono i protagonisti di Ads. La pedana rimane vuota per tutta la durata dello spettacolo, tranne per la presenza dei cittadini di Santarcangelo, proiettati su una lastra di vetro utilizzando la novecentesca tecnica del “Fantasma di Pepper”. Sono proprio queste illusioni olografiche a parlarci, nella loro splendida e inconsistente presenza. Nessun taglio, nessuna correzione. I diversi “credo” sono montati poi insieme in una sequenza più casuale che ponderata.
Una signora crede nella forza della donna, una nell’epigenetica, uno nel vegetarianismo, uno nell’educazione e molti credono in Dio. C’è chi è sicuro, chi farfuglia, chi improvvisa. All’inizio il pubblico ride, ridicolizza, ironizza sul buonismo ostentato o sulla provincialità del pensiero degli “attori”.
Ma piano piano si rende conto che non c’è niente di banale nell’affermare un credo, per quanto non condivisibile. Allora sopraggiunge una disarmante consapevolezza della nostra megalomania, della tronfia convinzione di essere in qualche modo superiori. Come avremmo risposto noi a una simile domanda?
Pur non essendo palesata la presenza del regista, pur non essendoci una sceneggiatura, il marchio di Maxwell e il suo sguardo sono onnipresenti. L’unico dubbio che ci rimane è la sincerità dell’operazione, il suo smascherare certe dinamiche interne ed esterne che pongono necessariamente il pubblico in una condizione di scetticismo e evocano un senso di ridicolo e imbarazzo. È sua crudele intenzione metterci a disagio? O forse siamo noi che non siamo più abituati ad ascoltare e ascoltarci? In un mondo dove siamo continuamente interpellati, dove ogni giorno ci viene chiesto di esprimerci e vivere i nostri 15 minuti di warholiana fama, perché dovremmo sentirci così minacciati dalla presenza altrui? Forse perché siamo saturi, immuni, quasi sordi a ogni tipo di espressione che non sia la nostra o che non ci riguardi in qualche modo.
Pur sapendo che Ads è una proiezione, ci sentiamo invadere da una straniante sensazione di intimità, di empatia mista a repulsione che la presenza dell’altro ci offre. Quindi eccoci qui, seduti in una sala insieme a tanti altri e sul palco uno di noi, una persona “normale”. Ci lasciamo guidare in questo flusso di visi e parole, nel buio del teatro che nella sua funzione ci costringe a rimanere fino alle fine. C’è una delicatezza nell’operazione di Maxwell, un percorso di briciole che lui lascia per coloro che hanno voglia di andare oltre il povero pasto della superficialità. Una delicatezza che lascia spazio all’animo umano di sondare quelle barriere poste tra il me e te, il noi e voi, il noi e “loro”.