Il teatro, da quando è stato rifondato sul mito della tragedia greca come proiezione di un’agorà tutta inscritta nell’immaginario e nelle necessità di fare società, in quel periodo della nascita della modernità tra Hölderlin, Goethe, Wagner e Nietzsche, ha sognato di ricostituire una comunità irrimediabilmente perduta. Nel ’68 e dintorni si è riscoperto che quell’arte povera che è il teatro, fatta essenzialmente di corpo, voce, volontà di incontrare un altro e tutto il resto è orpello, poteva essere un formidabile strumento per reinventare quell’eden perduto nell’individualismo della vita industriale e post-industriale. Sappiamo come quella comunità (quelle comunità che allora si formarono) esplosero a contatto con la realtà, o si chiusero nel progetto di resistere in piccoli gruppi solidali, praticando la strada delle minoranze consapevoli. Poi il termine comunità è slittato nel mondo digitale, diffondendosi in modo pulviscolare, con corpo, voce e contatto che contano meno (o in forma più mediata) dei comuni interessi, del confronto o più spesso dello scontro su un’idea, su una propensione. La community è diventata terreno di caccia degli uffici promozione, chiave di volta per i rapporti spesso non troppo limpidi tra teatri, festival e pubbliche amministrazioni. Una specie di misuratore di consenso, piuttosto che invenzione di nuovi modi per vivere condividendo.
Dall’osservatorio degli anni Duemila ormai maturi, non resta che prendere atto di una vecchia verità: la comunità oggi non esiste e forse non è mai esistita, neppure ai tempi dei greci. Una società è un campo di tensioni contrastanti, di gruppi o individui in concorrenza. La comunità può essere censoria, il luogo del senso comune trasformato in legge, molto spesso al ribasso (come nel caso dell’ingiunzione di sfratto ai Mutoid da Santarcangelo). La comunità è, deve essere, un progetto, una costruzione, una ricerca. Un compito del teatro, che ha unicamente nell’umano la propria materia prima.