Nella sua accezione più stringente, l’infanzia definisce quell’età della vita in cui ancora non è subentrato il linguaggio. Sebbene sia dimostrato che gli infanti comprendono già un repertorio di diverse parole assai prima di saperle pronunciare, l’infanzia è generalmente intesa come momento prelinguistico.
In questo momento il bambino, rispetto al mondo, è dominato da appetiti e incanti liberi dal senso e dalle conseguenze. Prima dei “perché?” e degli “e poi?” la misura del mondo è tutta fatta di stupori e ripetizioni. Lo stupore e la ripetizione: ovvero il desiderio del pubblico e il destino dell’attore. In questo dunque l’infante è virtualmente sia lo spettatore del futuro che l’attore del futuro: da un lato chiede allo spettacolo del mondo uno stupore continuo, dall’altro il movimento della ripetizione gli appare come forza decisiva a scandire qualcosa come un ritmo (e non un tempo).
Lo stupore ha, rispetto ad esempio alla complicità e al compiacimento intellettuale da una parte, e all’antagonismo e al rancore dall’altro, una pura gratuità com’è quella dell’amicizia.
Lo stupore del bambino è totalmente libero e disinteressato, non conosce, di fronte all’arte, che la sua meccanica semplicissima e perfetta cui il corpo immediatamente risponde con tutti i segni dell’entusiasmo. Categorie come tradizione e ricerca, avanguardia e passato non hanno alcun valore, e dunque prevedere cosa stupirà l’infante non è dato che a uno sguardo attento e preciso. Raggiungere questo stupore è cosa difficilissima ed elementare, com’è poi sempre raggiungere l’esattezza. Chissà se il Festival di quest’anno, col suo richiamo esplicito all’infanzia, ha raggiunto questa esattezza. Che l’abbia cercata lo proietta già, in ogni caso, nel futuro che appartiene al bambino.
Annalisa Sacchi*
*Studiosa delle arti performative contemporanee, è docente presso Harvard University